18/02/07

Mons. Mario Bonacchi (2006)


L’improvvisa morte
Mons. Mario Bonacchi.
«Ho combattuto
la buona battaglia,
ho terminato la mia corsa,
ho conservato la fede»
(II Tim. 4,7).
di mons. Mario Bonacchi
LA SERA di martedì 27 giugno, poco prima di iniziare la S. Messa quotidiana delle ore 18, è arrivata, inattesa e dolorosa, la notizia della morte di mons. Mario Bonacchi, avvenuta a Prato dove risiedeva, solo qualche ora prima. È stata data subito notizia ai fedeli presenti in chiesa e la S. Messa celebrata in suo suffragio.
Don Bonacchi è stato di casa a Bardonecchia per vari decenni, facendosi stimare e benvolere per il suo  carattere tipicamente toscano, faceto, arguto, spiritoso, ma soprattutto per la testimonianza del suo sacerdozio zelante e di ubbidienza scrupolosa alla Chiesa. Era nato a Prato il 30 luglio 1923. Dopo gli studi classici al Liceo Cicognini, si era laureato in Medicina all’Università di Firenze.
In quegli anni, nubi di guerra si erano abbattute sull’Europa, scatenando la Seconda Guerra Mondiale, e il giovane laureando in medicina fu arruolato con gli Alpini del Battaglione Edolo, formato in gran parte da studenti di medicina toscani, dapprima trasferiti a forza in Germania e costretti all’addestramento militare tedesco.
Poi, rientrati in Italia, vennero destinati al fronte sulle Alpi italo-francesi. In quel frangente, l’alpino Mario Bonacchi si trovò sulle montagne di Bardonecchia. Nella sua memoria resterà impresso in modo indelebile quell’episodio da lui raccontato tante volte, capitato nella notte tra il 22 e 23 aprile 1945 a Rochemolles: «... noi ci accorgemmo che i tedeschi varcarono il ponte e ci aggirarono prendendoci alle spalle. Ci disarmarono con le mani alzate lungo il muro della baita. (...) Riuscimmo a fuggire in quattro, e a nasconderci nella chiesa di cui la mamma di don Masset ci aveva fornito la chiave. Rimanemmo lì due giorni e l’ultima notte, nel timore di un rastrellamento, ci nascondemmo in un pertugio dietro il retablo che allora chiudeva l’abside. Fummo salvi per la misericordia di Dio».
A sessant’anni da questi eventi, proprio la scorsa estate 2005, don Mario,a ricordo di quanto successo e per grazia ricevuta, volle donare un tondo di imitazione robbiana che riproduce la Vergine Maria e posta sull’altare della cappella del Ponte.
È in quegli anni di guerra che inizia il legame di don Mario con Bardonecchia. È lui stesso a raccontare: «L’inverno durissimo 1944-45 mise a dura prova la mia salute, per cui dovetti scendere a Bardonecchia ai primi di gennaio del’45». Fu in quelle circostanze che conobbe Angela Massara che con la sua famiglia si prese carico e cura di quel giovane militare, colto, educato e stremato nelle forze e nella salute. Un rapporto di gratitudine e amicizia che continuò nel tempo.
Terminata la guerra e conseguita la laurea, appena intrapresa la professione medica, sentì la chiamata alla vita sacerdotale ed iniziò gli studi di teologia al Pontificio Seminario Romano, i cui studi gli lasciarono un’impronta indelebile. Fu ordinato sacerdote da Mons. Fiordelli a Prato il 19 marzo 1960, a 37 anni. Dall’Ordinazione fino al 1968 insegnò nel Seminario di Prato. Dal 1961 al 1969 fu assistente Giac, la Gioventù di Azione Cattolica. Nel 1961 iniziò anche ad insegnare religione all’Istituto Buzzi di Prato e fu nominato Bibliotecario della Ronconiana. Nel 1963 fu nominato Canonico Teologo della cattedrale.
Nel 1968 arrivò la nomina a Parroco della Cattedrale, che resse fino al 1975. Dal 1973 al 1982 è stato Rettore dell’Arciconfraternita della Misericordia, coinvolgendo molti giovani. Uomo di acuta saggezza e grande cultura umanistica, scientifica, amava conversare con tutti cercando di lasciare in ognuno una traccia di spiritualità e di fede. Nel 1996 fu nominato Cappellano di Sua Santità, con il titolo di Monsignore. È stato Direttore dell’Istituto Diocesano per il sostentamento del clero. Il Vescovo Mons. Simoni lo aveva poi incaricato del delicato servizio di esorcista della Diocesi, che esercitava con grande discernimento, grazie anche agli studi medici e scientifici mai abbandonati.
Don Bonacchi, dagli anni ’70 riprese a venire a Bardonecchia, che era sempre rimasta nel suo cuore, portando nella casa di Via Genova, acquistata dalla famiglia Massara, che era stata la storica “Casa Scuola”, e trasformata in luogo di vacanza e formazione, numerosi gruppi di giovani, sia d’estate che, almeno per un periodo, anche d’inverno. In queste esperienze di vita assieme, fatte di riflessione e di preghiera, vari giovani hanno maturato la vocazione sacerdotale, avendo avuto in lui l’esempio e la guida spirituale.
Ci fu una reciproca stima con il compianto mons. Bellando, col quale condivideva la stessa visione di Chiesa e dei suoi problemi. In Sant’Ippolito celebrava la Messa ogni domenica alle ore 10, nei mesi di luglio e agosto; era ricercato confessore e direttore di anime. Ha predicato innumerevoli corsi di Esercizi Spirituali
estivi e tenuto interessanti e apprezzate conferenze. Ed anche nella Cappella della sua casa “Chez nous”, come l’aveva battezzata, ogni mattina si radunava un gruppo di persone per la S. Messa e non mancava, puntuale, ogni giorno, un pensiero spirituale preso dal Vangelo.
Mons. Bonacchi è stato figlio devoto di Santa Roma Chiesa, avendo ben a cuore, per formazione e convinzione, la grandezza del Sacerdozio cattolico che rende un uomo “ponte” tra la terra e il Cielo, soffrendo interiormente molto, in vari casi, nell’assistere ad un abbassamento di tono, di decoro, di eleganza,
di ubbidienza alla Chiesa, tra le file di alcuni confratelli.
La morte è arrivata frettolosa nella mattinata del 27 giugno. Alle ore 9,30 era stato a celebrare la Messa in Cattedrale, come ogni giorno, all’altare del Santissimo, in una mattinata caldissima. Il ritorno a casa, nel breve tratto di strada, si era rivelato faticoso e le forze sono venute meno. Mentre recitava il Rosario con il cognato, è arrivato il momento in cui il suo animo ha percepito la voce del Buon Pastore: «Vieni servo buono e fedele a prendere parte della gioia del tuo Signore».
La Cattedrale di S. Stefano di Prato, giovedì 29 giugno, gremita, lo ha accolto, come in trionfo, con la presenza di una schiera di sacerdoti con il Vescovo Mons. Gastone Simoni che, in una omelia stupenda, ha tratteggiato la sua figura, la sua spiritualità, il suo impegno per le vocazioni e la sua ubbidienza alla Chiesa. Anche una delegazione da Bardonecchia ha voluto essere presente a portare la propria stima, l’amicizia e le condoglianze. Con Mons. Bonacchi viene a mancare una figura di grande rilievo e spessore sacerdotale.
Ora riposa nel Cimitero di Prato, ed anche noi da Bardonecchia, dove lo abbiamo ricordato con una solenne Messa di trigesima, gli diciamo: «Grazie don Mario per il bene seminato in tanti anni tra di noi. Il Signore te ne renda merito. Riposa in pace. Amen».
F.T.

foto omesse
Mons. Bonacchi nel corso di una conferenza tenuta nella nostra chiesa. [foto t.col. G. de Franceschi]
Mons. Bonacchi presiede la celebrazione del Vespro di Sant’Ippolito. [foto t.col. Giuseppe de Franceschi]


NON FECIT TALITER...
Don Mario Bonacchi: il fascino della paternità
Il don Mario che ho conosciuto
Non so chi, ma ricordo che qualcuno ha detto che un prete non soltanto buono, ma pio, è già un avvenimento, al giorno d’oggi, nel luogo dove esercita il ministero e tutt’intorno a lui. Un prete santo, poi, quando ci fosse, è un evento vero e proprio.
Lungi da me “beatificare” don Mario adesso (anche se personalmente sono convinto della sua vita santa) perché mi sembrerebbe di farlo boffonchiare, con sacrosante ragioni teologiche ed ecclesiali, come faceva davanti a certi “santo subito”. Però non posso non pensare che la presenza di don Mario a Bardonecchia era un evento, nel senso rilevato all’inizio. Lo dicevamo con sofferto realismo con don Franco, ai suoi funerali nella stupenda cattedrale di Prato: preti così non se ne fanno più.
In molti ne sono testimoni, in particolare noi preti debitori del suo discernimento e della sua formazione  spirituale, nei quali sapeva infondere un “sensus ecclesiae” come pochi altri avrebbero potuto.
Incontrarlo significava avvertire il dono della sua pronunciata paternità spirituale.
Da giovanissimo, già conoscevo i suoi ragazzi, con i quali si era giocato talvolta, anche in parrocchia o altrove a Bardonecchia, o fatte delle gite in montagna, oppure scherzato quando, mancando giovani del paese che si vestissero in costume – perché c’era un periodo in cui ci si vergognava di queste cose – molti di loro rappresentavano il paese alla festa patronale di S. Ippolito, accanto alle ragazze di Bardonecchia o villeggianti, con relative possibili complicazioni sentimentali. Erano caratterizzati dallo loro spiccata parlata
toscana che li rendeva simpaticamente diversi.
Don Mario lo si vedeva in parrocchia e c’era una certa familiarità perché, ovviamente conosceva bene i lettori o ministranti più assidui e faceva piacere scambiare qualche parola con lui. Ma conobbi veramente don Mario quando entrai per la prima volta in quella parte di “casa scuola” che lui aveva comprato. Altre volte vi ero andato – anni prima, c’era ancora Madame, come veniva chiamata la sig.ra Massara – a trovare compagni di scuola e a fare i compiti con loro. Ora – don Mario cominciò i campi scuola a Bardonecchia
nel 1970 – diventata Chez Nous, era tutta un’altra cosa.
Capitò così: io ero da poco entrato in Seminario ed il nostro Parroco don Bellando mi chiese di accompagnarlo da don Mario.
Semplicemente. Era inverno, credo nel periodo natalizio: allora Chez Nous apriva anche in quel periodo, credo fosse il 1977. La casa era piena di gente e fuori c’era tanta neve. Era già buio e il calore sprigionava tutto da una scena indimenticabile: don Mario attorniato dai suoi ragazzi. Don Mario si rallegrò molto della mia scelta e, conoscendone bene le difficoltà, m’incoraggiò a lungo e con saggezza. Ci saremo ritrovati all’inizio dell’estate, per gli Esercizi Spirituali da lui predicati, con un gruppetto di giovani, tutti più o meno della mia età ed incamminati verso un cammino spirituale più intenso.
Fu proprio allora che svelò l’aneddoto, poi ripetuto a profusione negli anni a venire, accaduto poco tempo prima, quando mons. Bellando gli preconizzava una numerosa figliolanza di sacerdoti. Guardando ai suoi ragazzi che seguivano attenti una meditazione,
il Parroco di Bardonecchia aveva esclamato ad alta voce e compiaciuto una citazione biblica: «Non fecit taliter omni nationi» (così non ha fatto con nessun altro popolo, Ps.147,20) e rassicurò don Mario dicendogli che sarebbe stato padre di tanti sacerdoti. Questo mi raccontava don Mario in quel lontano 1978. La stessa cosa mi scriverà poi 26 anni dopo, in una stupenda lettera che conservo quasi come un testamento spirituale,
anche se non è stata l’ultima che mi scrisse. Abbiamo imparato da lui poi a cantare, dopo la Benedizione eucaristica, al Lauda Jerusalem, proprio il “non fecit taliter omni nationi”, un timbro, un marchio della fabbrica dei preti di don Bonacchi. Speriamo tanto che non vada perduto.
foto omesse
In attesa della Messa di Sant’Ippolito, si intrattiene fraternamente con alcuni altri sacerdoti.
«Don Mario è stato un prete vero, fino al midollo delle ossa, un sacerdote presso Dio e servo innamorato della Chiesa». 
foto t.col. Giuseppe de Franceschi]
Don Mario o della fedeltà, della paternità, della educazione
Fui come rapito da quell’ambiente così naturale, vero, familiare e cristiano ad un tempo e avvertii subito di essere già entrato nel cuore di don Mario. Saranno soprattutto gli Esercizi Spirituali da lui predicati nella casa Chez Nous a un gruppetto di giovani, non raggiungevamo mai la decina. A cominciare da quell’anno li frequentai sempre, aspettandoli come un appuntamento tanto desiderato, sempre tra la fine di luglio ed i primi giorni di agosto, fino al raggiungimento del Sacerdozio, per cinque anni di seguito e quasi tutti i partecipanti sono oggi sacerdoti. Si trattava di una settimana molto impegnativa, per dei giovanotti come noi... Diverse meditazioni-fiume, al giorno, che si sapeva quando iniziavano, ma mai quando finivano. Sempre meticolosamente preparate da lui: una miniera di spiritualità, teologia, storia, liturgia e di interessantissime considerazioni da medico, psicologo e pedagogo, fondate su una ricca cultura umanistica e
classica che erano l’ossatura del suo ragionare. Le ho raccolte su diversi quaderni, che lui stesso ci forniva, con la copertina intestata alla Cassa di Risparmio di Prato, e più volte le ho riprese in mano per la mia predicazione. Vedo ancora quel ping-pong attorno al quale ci riunivamo all’inizio, poi subito sostituito da un grande tavolo. C’era la Messa mattutina, ogni giorno, l’Adorazione eucaristica con la benedizione, l’Ufficio liturgico celebrato con le diverse ore in comune, il Rosario... ed io ero l’unico seminarista, quindi già un pochino avvezzo a tali cose, gli altri erano studenti universitari di varie discipline, che soltanto con gli anni e dopo la laurea civile (su questo era molto fermo) si sarebbero poi avviati al Sacerdozio. Devo dire però che è stato un vero patrimonio di cultura e di vita, quello ricevuto negli anni decisivi della formazione giovanile, grazie proprio a don Bonacchi.
Un altro aspetto caratteristico erano i colloqui personali con lui, ispirati alla verità dell’individuo, al suo vero bene, che aprivano anche alle confidenze più intime e dai quali si usciva con qualcosa di molto concreto da fare, per i prossimi mesi. Lui non tracciava un cammino, ma ti dava tutti gli elementi perché ciascuno, in coscienza, potesse farselo.
Un rapporto che nel corso degli anni, attraverso le tappe dei vari incarichi del mio ministero sacerdotale, sarebbe sempre rimasto vivo e importante punto di riferimento.
Prete dalla testa ai piedi
Raccontare tutto questo è per me un bisogno del cuore, ma soprattutto un mezzo per riflettere sul ruolo del sacerdote nella vita delle persone. Don Mario è stato un prete vero, fino al midollo delle sue ossa, un sacerdote pieno di Dio e servo innamorato della Chiesa. Il tutto intessuto in un’umanità ricca, espressiva, intagliata sulle sue radici contadine, di cui andava fierissimo, e nutrita da una cultura e spiritualità davvero ricchissime. Quante volte insisteva su quel «gratia non tollit naturam sed perficit...» di S. Tommaso (la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona), perché era quanto lui aveva sempre vissuto in prima persona.
Il Vescovo di Prato, S.Ecc.za Mons. Gastone Simoni, in una stupenda omelia durante il suo funerale lo ha tratteggiato con proprietà, profonda conoscenza e commosso affetto. Due tratti soprattutto mi hanno colpito: «Parlando o scrivendo di lui bisognerà dire don Mario o della fedeltà ... don Mario o della paternità spirituale».
La sua fedeltà alla Chiesa, alla tradizione era palpabile ed anche visibile, bastava guardare a quella sua talare che portava come una bandiera, e ne è segno eloquente, o al suo modo di celebrare la Messa, come ormai si vede quasi più nessuno.
Ma è soprattutto quella della paternità, l’immagine più adeguata a lui. Padre di tanti giovani, che poi negli anni sono cresciuti. Come afferma Ernst Junger nel suo “Il trattato del ribelle”: «È necessario rispondere alla domanda di Sacro che viene dai giovani». Questo che secondo Claudio Rise, psicologo e credente, è uno dei principali compiti del Maestro oggi, don Mario l’ha svolto in modo singolare ed eccellente. Quanti giovani, molti poi cresciuti nel tempo, si vedevano in Duomo a Prato, il giorno dell’ultimo saluto, quanta gente piangeva con lacrime che solo i figli versano per i padri. Padre di sacerdoti, il suo vero vanto e la sua corona... come mi scriveva il 14 ottobre 2004, dal raduno di tutti i suoi figli sacerdoti che per la prima volta erano riusciti a mettere insieme, con la presenza del Vescovo, dal primogenito don Nedo oggi Rettore del Seminario e provicario, a don Basilio, don Daniele, don Carlo, don Alessandro, don Giovanni, don Claudio Fattori e gli altri numerosi giovani da lui seguiti spiritualmente. Mi scriveva in quella cartolina con tutte le
firme: «Abbiamo ricordato anche il figlio di Roma». E nella lunga lettera che l’accompagnava, spiegandomi come aveva vissuto la giornata, con delicatezza aggiungeva: «C’erano tutti. Mancavi solo tu e ho sentito la tua mancanza».
Un padre è sempre l’inizio di un popolo. Fu così per Abramo. È vero per Cristo, e per il prete che alter Christus, deve permettere ad ogni uomo un esperienza di figliolanza e paternità simile alla sua. È così che nasce il popolo cristiano. Don Mario possedeva fortemente questa consapevolezza e ricordo che, con sempre maggiore insistenza vi ritornava nei colloqui di questi ultimi anni, nel cortile della casa di Bardonecchia: «Il sacerdote deve essere padre ... e come padre generare ... altrimenti sarà uno zitellone, senza discendenza, quindi sterile ... un povero scapolone ripiegato su se stesso, ripiegato su se stesso a rimpiangere quello che ha lasciato». Se la prendeva con chi voleva vivere il Sacerdozio con uno stile fraterno e diceva che era la strada sbagliata, una vera riduzione dall’area ministeriale del prete. Sottolineava che tutte le grandi crisi della Chiesa sono state essenzialmente connesse alla decadenza del clero, per il quale il rapporto con il sacro non era più un rapporto emozionante e coinvolgente, persino pericoloso, nella bruciante vicinanza di Colui che è tutto Santo, ma era solo più un modo comodo per garantirsi l’esistenza. Anche per questo insisteva tanto sullo studio e sulla conoscenza.
La paternità, per don Mario era la pienezza dell’umano e vedeva nella Chiesa il vero luogo della paternità spirituale, che ha come primo compito quello di educare. Secondo lui Cristo ha lasciato questo compito, innanzitutto, alla santa madre Chiesa: essa genera i propri figli nel fonte battesimale, li alimenta, li educa e li sostiene attraverso i Sacramenti, la catechesi, l’appartenenza reciproca. I sacerdoti sono i veri servitori della paternità di Dio e della maternità della Chiesa. Paternità che don Mario esercitava – secondo la più bella tradizione ecclesiastica – curando la formazione liturgica, come eredità che non deve andare dispersa, per alimentarsi ad essa e non dissipare questo tesoro, riducendo la liturgia a spettacolo, o peggio ancora trattandola con svogliatezza e sciatteria. Insieme a questo un secondo tratto importante della sua paternità spirituale era l’introduzione a testi che diventano, nel tempo, come pietre su cui costruire una casa. Indicare certe letture, spiegandone le ragioni, è una forma privilegiata di paternità spirituale. Un terzo aspetto era anche l’educazione alla vita comunitaria, che può e deve avvenire nelle forme convenienti e introduce in una forma di vita che poi accompagnerà sempre, magari anche solo attraverso un senso di nostalgia.
Don Mario ci lascia una grande lezione con la sua paternità esercitata e insegnata per non dimenticare che l’uomo non è spiritualmente fecondo se non si lascia continuamente generare. Ho scoperto che anche quel grande prete che fu don Giussani, educatore di un popolo di giovani, diceva che «Nessuno genera se non è generato». Grazie don Mario, per aver insegnato ai suoi figli sacerdoti che oltre che annunziatori e dispensatori della celebrazione dei Sacramenti, Gesù ci ha chiamati a essere educatori, cioè padri. Dal Papa all’ultimo prete, noi, che non avremo figli naturali, siamo voluti come padri, cioè generatori ed educatori. Siamo chiamati a quella capacità di abbraccio che non si ferma di fronte al malato, al vecchio, al bambino, all’abbandonato, al morente, perché consapevoli che comincia da lì la rivelazione della vita gloriosa, eterna,
che non passa.
Cristo ci vuole padri, a noi preti, insegna don Bonacchi, con una prioritaria preoccupazione: essere rifrazione di colui che ci ha donato l’esistenza, ci ha salvati dal nulla e ci ha dischiuso le porte della più grande avventura, quella dell’essere perdonati.
Bardonecchia nel cuore
Sono fra coloro che pensano che se don Mario avesse potuto venire a Bardonecchia, un po’ prima quest’anno, forse ci sarebbe ancora. Perché quassù lui rinasceva e la sua salute rifioriva, sempre.
Riferendosi alla gioia di avere incontrato ancora una bella vocazione sacerdotale, proprio a Bardonecchia, nella sacrestia di S. Ippolito, che poi don Franco avrebbe affidata alle sue cure e che è stato il suo Beniamino, fino all’ultimo, mi scriveva ancora quest’anno: «Bardonecchia, che ha visto l’alba della mia vocazione e quella dei miei figli sacerdoti, mi ha offerto, in questo tramonto della mia vita, ancora una stupenda esperienza di grazia ». Ecco com’era importante questo suo rapporto con Bardonecchia.
Alcune volte alla sera capitava di sedersi con lui su una delle panchine addossate al muro della casa e con lui godere la parte finale del tramonto. Più d’una volta rimaneva estasiato a contemplare gli ultimi raggi di sole, ormai alle 21, sulla cima di quella montagna di fronte di cui mi chiedeva sempre il nome. Mi era parsa in un primo tempo la Grandoche, invece scoprimmo che si trattava della punta Charrà. C’era indubbiamente una nostalgia dell’eterno in quel suo sguardo. Era un padre, sì, ma era rimasto anche un bambino.
Proprio questo, fra i tanti, è uno dei più bei ricordi in cui mi piace mantenerlo al nostro fianco. Bardonecchiese d’adozione, bardonecchiese onorario, per sempre.
don Claudio Jovine

foto omesse 
Mons. Bonacchi, con il Vescovo Mons. Alfonso Badini Confalonieri e mons. Claudio Jovine, autore dell’articolo.
[foto t.col. Giuseppe de Franceschi]