15/02/08

Quella Messa si può fare (2007)


Attesa da molti con ansia, da non pochi con angoscia, da tutti con curiosità è finalmente stata pubblicata – «frutto di lunghe riflessioni, di molteplici consultazioni e di preghiera » – la Lettera Apostolica che amplia le facoltà di celebrare la liturgia romana secondo il rito anteriore alla riforma del 1970.

Il contesto storico e dottrinale
È stata spesso presentata come un atto improvviso, dall’aria un po’ arbitraria, frutto di una decisione tutta personale del Papa Benedetto XVI, motivata – nella migliore delle ipotesi – dalla volontà di favorire il rientro nella pienezza della comunione cattolica della Fraternità San Pio X, fondata dall’Arcivescovo francese Mons. Marcel Lefebvre (1905-1991). Le cose non sono andate così. Il Motu proprio “Summorum Pontificum” ha una lunga storia antecedente che – per tanti versi – trascende l’«affaire » Lefebvre.
Quando fu fatta la riforma liturgica non si pensò di dover abrogare la liturgia precedente. Si era infatti convinti che la cosa sarebbe andata da sé: la nuova liturgia avrebbe insensibilmente ed inesorabilmente sostituito l’antica, come era successo spesso nella lunga storia della Chiesa. Gli eventi presero invece decisamente un’altra direzione. Non si era tenuto conto del fatto che la riforma era avvenuta – o, perlomeno, era stata percepita – come qualcosa di “fatto a tavolino” da un gruppo di esperti e non come il frutto maturo di una impercettibile evoluzione storica. Inoltre si era sottovalutato che si trattava della più imponente riforma liturgica di tutta quanta la storia del cristianesimo. Verso la metà del XVII secolo, il Patriarca di Mosca Nikita Minicˇ Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino slavo celebrato dalla Chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni (frantumatosi ben presto in diverse branche) che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti.

Toccare la liturgia è sempre molto rischioso! Così la riforma liturgica non si affermò affatto in modo “indolore”. Da una parte, essa fornì l’occasione ad una serie di scandalosi abusi, dove l’abuso principale – quello strisciante – era l’idea che la liturgia fosse qualcosa di continuamente da inventare, da “fare” e non piuttosto l’accoglienza e la celebrazione del dono e dell’azione di Dio in mezzo agli uomini: «Tutte le volte che celebriamo questi santi misteri si compie l’opera della nostra redenzione»
(Preghiera sulle offerte della II Domenica durante l’anno). Dall’altra, suscitò una reazione a volte violenta e a volte nascosta, ma comunque reale e fastidiosa, tale da generare un clima di disagio che finì per rendere problematici i suoi innegabili effetti positivi là dove essa era applicata e vissuta in ossequio alle norme e – soprattutto – in conformità con la teologia liturgica che la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium aveva così profondamente delineato.
Questa reazione critica era arrivata – in qualche caso – addirittura a mettere in discussione l’ortodossia della riforma. Cosa assurda e teologicamente molto debole, soprattutto se esaminata dal punto di vista di una corretta ecclesiologia, ma che era resa molto credibile dai tanti abusi liturgici che finivano per addolorare e spazientire i fedeli.
Questo è l’indispensabile contesto in cui va letto il documento.  Innanzitutto, dunque, va considerato che l’antico rito non è mai stato abrogato.
Tant’è vero che, ad un certo punto, vista l’inattesa reazione alla riforma, il Presidente del Pontificio Consiglio per l’esecuzione della riforma liturgica Mons. Annibale Bugnini (1912-1982) si adoperò per ottenerla, ma senza successo. Ci si rese infatti subito conto che si trattava di un atto molto problematico. I canonisti avevano ipotizzato la possibilità di una obrogatio, cioè di una eliminazione di fatto dovuta al totale riordino della materia: si sarebbe comunque trattato di qualcosa di inaudito, cioè dell’abolizione mediante un atto giuridico di un rito liturgico ortodosso e immemoriale.
Ci si doveva allora obbligatoriamente riferire al canone 21 del Codice di Diritto Canonico: «Nel dubbio la revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è possibile».
Il Motu proprio non fa dunque che sanzionare questa situazione di fatto: «Questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso» (Benedetto XVI, lettera di accompagnamento). La Chiesa, davanti al rito antico, si trova a riconoscere, come in altri casi analoghi (per es. l’ordinazione di donne al ministero presbiterate), di non avere con certezza la facoltà di procedere. Questo non significa affatto una limitazione indebita del potere della Chiesa, ma solo il riconoscimento che la consuetudine liturgica, ortodossa ed immemoriale, costituisce una delle espressioni della sua stessa sacra potestas.
La legittima esistenza del rito, che deve essere inteso come forma straordinaria dell’unico rito romano, configura un corrispondente diritto dei fedeli. Per cui se un sacerdote decide di celebrarlo nella forma «sine populo» (cioè al di fuori delle Messe di orario parrocchiali o comunque pubbliche) qualunque fedele può accedere alla sua celebrazione, senza che né il sacerdote né i fedeli debbano chiedere l’autorizzazione a chicchessia (cfr. Summorum Pontificum, art. 2 e 4).
Per le Messe parrocchiali bisogna che i fedeli costituiscano un gruppo stabile e  facciano richiesta al parroco. Se i fedeli legati alla liturgia tradizionale appartengono a diverse parrocchie, è prevista anche la possibilità – a prudente giudizio dell’ordinario – di una parrocchia personale (cfr. art. 10). Tutto ciò, assieme alle altre norme che si possono leggere nel documento, aiuta a capire che se si configura un diritto dei fedeli, esso però deve essere vissuto non in un clima da “rivendicazione sindacale” ma nella prospettiva del bene comune della Chiesa e dell’ordine che ad esso intrinsecamente appartiene (cfr. 1Cor 14,40; 11,16).
È riduttivo dunque leggere il documento solo in una prospettiva di riconciliazione con la Fraternità S. Pio X. Se è vero che la carità ecumenica non è credibile se non si manifesta innanzitutto con il prossimo più prossimo, tuttavia non si deve misconoscere che i punti di frizione con questi fratelli non si riconducono solo al problema liturgico, ma abbracciano altri punti molto delicati: la libertà religiosa, il dialogo interreligioso, l’ecumenismo. In definitiva la Chiesa stessa e il suo magistero, con la tematica a ciò connessa della Tradizione e dello sviluppo dottrinale. «Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura. che qui nasceva, si trovavano però più in profondità» (Benedetto XVI, lettera di accompagnamento).
I fedeli direttamente interessati dal Motu proprio poi non si riconducono nella loro stragrande maggioranza a quel movimento e non si tratta affatto di persone anziane legate al loro passato, ma spessissimo di giovani affascinati dal tono ieratico e sacrale dell’antica liturgia.
Un documento nell’ottica della continuità e della riconciliazione
Mi pare invece assai chiaro vedere nel documento una sconfessione visibile. direi «vessillare» dell’ermeneutica della rottura. L’“in principio” remoto è costituito dal Discorso alla Curia Romana tenuto da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, quello in cui il Papa ha identificato la causa principale della crisi in atto nella Chiesa nell’interpretazione errata del Concilio Vaticano II: «Due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro». Due e non tre... Con quel discorso siamo finalmente usciti dal modello ternario conservatori-progressisti-moderati che rifletteva di fatto anch’esso una lettura ideologica della vita della Chiesa.
Il modello binario di Benedetto XVI è – come deve essere – puramente teologico.
Il Motu proprio in questo contesto ha un significato che va ben al di là di un atto di carità ecumenica nei confronti di una minoranza, sebbene ci sia certamente anche quello. È molto più ampio: significa esemplarmente, con  quell’esemplarità che compete di suo alla liturgia, la sconfessione dell’ermeneutica della rottura. Questo fatto fornisce anche a tutti coloro che vogliono assecondare il Magistero nella sua opera di “riforma” un criterio interpretativo  prezioso: il Motu proprio deve essere interpretato – e quindi anche applicato e vissuto – in un ottica di continuità e non di rottura. Non è una “rivincita” ma un approfondimento.
Tutto ciò che mette in contrapposizione le due forme di quello che il Papa definisce un unico rito romano porta acqua al mulino dell’ermeneutica della rottura e non risponde all’intentio profonda dell’atto magisteriale. Certamente è legittimo – di per sé – fare confronti. Io posso esprimere un’opinione sul fatto che – poniamo – la liturgia siro-occidentale esprima meglio l’idea di adorazione rispetto a quella coptaalessandrina. O viceversa. Nel caso però, anche se legittime, considerazioni del genere risultano inopportune. Certamente non hanno né possono avere un valore che va oltre a quello di una pur legittima opinione teologica. Così come l’Imitatio Christi sconsiglia caldamente di far confronti tra i santi, credo non sia il tempo e il momento per lanciarsi in disquisizioni su quale sia la liturgia migliore.
Il che non toglie nulla al fatto che – per rimanere nell’esempio – uno abbia le sue devozioni preferite.
Né che una convivenza di varianti rituali nel contesto dello stesso rito – nel comune convincimento che tutte sono sacre e sante, in quanto dalla Chiesa recepite – faccia del bene sia all’una che all’altra e possa favorire una intelligente e non arbitraria “contaminazione”, il che andrebbe nel senso di quella “riforma della riforma” da tanti auspicata come l’esito proprio e felice delle aspirazioni più profonde e vere del “movimento liturgico” e del rinnovamento promosso dal Concilio ecumenico Vaticano II.
La Summorum Pontificum rappresenta dunque anche un implicito invito a dar vita ad un “nuovo movimento liturgico”. Solo un movimento spirituale e culturale di vaste proporzioni può ridare alla liturgia – prendendo come “manifesto” proprio la Costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium con i profondi e troppo poco considerati commenti e sviluppi del Catechismo della Chiesa Cattolica – il suo ruolo di fonte e culmine della vita della Chiesa con tutta la bellezza e lo splendore che le competono di diritto. Così come molti nel 1970 pensarono che con un nuovo rito tutto fosse fatto, ora dobbiamo stare attenti a non pensare che adesso, con la possibilità di celebrare il vecchio rito, tutto sia risolto. Pensare, o lasciar credere, che il rito possa sostituire la formazione liturgica è mettere il carro davanti ai buoi, è un incentivo alla pigrizia, che – come ben sappiamo – è una delle principali tentazioni dei “buoni”: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8).
S. Messa cantata in gregoriano dai Monaci Benedettini di Le Barroux. (foto Emilio Allia)
S. Messa cantata in gregoriano dai Monaci Benedettini di Le Barroux. (foto Emilio Allia)
I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, «a lode e gloria del Suo nome» ed «ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa». Da tempo immemorabile, come anche per l’avvenire, è necessario mantenere il principio secondo il quale «ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede».
Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di San Gregorio Magno, il quale si adoperò perché ai nuovi popoli dell’Europa  i trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l’Ufficio divino, nel modo in cui si celebrava nell’Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle monache, che operando sotto la regola di San Benedetto, dovunque unitamente all’annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: «Nulla venga preposto all’opera di Dio» (cap. 43). In tal modo la sacra liturgia celebrata secondo l’uso romano arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte popolazioni.
Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue forme, in ogni secolo dell’età cristiana, ha spronato nella vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù di religione e ha fecondato la loro pietà.
Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la sacra liturgia espletasse in modo più efficace questo compito: tra essi spicca San Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell’esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici,
emendati e «rinnovati secondo la norma dei Padri» e li diede in uso alla Chiesa latina.
Tra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppò nella città di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti.
«Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l’aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all’inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale». Così agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, San Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il Beato Giovanni XXIII.
Nei tempi più recenti, il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato «perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignità e armonia».
Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell’anno 1984 con lo speciale indulto Quattuor abhinc annos, emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell’anno 1962; nell’anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica Ecclesia Dei, data in forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.
A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:
Articolo 1 - Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del
– Pubblichiamo il testo integrale della Lettera Apostolica di Benedetto XVI “Motu proprio data” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.
ATTUALITÀ - 101
Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. Le condizioni per l’uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori Quattuor abhinc annos e Ecclesia Dei, vengono sostituite come segue:
Articolo 2 - Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.
Articolo 3 - Le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo l’edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una singola comunità o un intero Istituto o Società vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.
Articolo 4 - Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.
ARTICOLO 5 - § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa.
§ 2. La celebrazione secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni feriali; nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una celebrazione di tal genere.
§ 3. Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.
§ 4. I sacerdoti che usano il Messale del Beato Giovanni XXIII devono essere idonei e non giuridicamente impediti.
§ 5. Nelle chiese che non sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore della chiesa concedere la licenza di cui sopra.
Articolo 6 - Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII, le letture possono essere proclamate anche nella lingua vernacola, usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.
Articolo 7 - Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei.
Articolo 8 - Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause è impedito di farlo, può riferire la questione alla Commissione Ecclesia Dei, perché gli offra consiglio e aiuto.
Articolo 9 - § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.
§ 2. Agli Ordinari viene concessa la facoltà di celebrare il sacramento della Confermazione usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle anime.
§ 3. Ai chierici costituiti “in sacris” è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962.
Articolo 10 - L’Ordinario del luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto.
Articolo 11 - La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, eretta da Giovanni Paolo II nel 1988, continua ad esercitare il suo compito. Tale Commissione abbia la forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire.
Articolo 12 - La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l’applicazione di queste disposizioni.
Tutto ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu proprio, ordiniamo che sia considerato come “stabilito e decretato” e da osservare dal giorno 14 settembre di quest’anno, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 luglio 2007, anno terzo del nostro Pontificato.
BENEDETTO XVI