02/11/12

ATTUALITÀ (2011)

(le fotografie del bollettino sono omesse)

- Sant'Escrivà nell'album di Bardonecchia
- Walter Bonatti negli annali bardonecchiesi!
- Cottolengo in festa per 
   la Beatificazione di don Francesco Paleari
Signore, dove abiti? ... Vieni e vedi
Il Ponte di Fontana Giolitti
Celebrazione estiva di San Benedetto a Grange Moutte
- Raduno dei doganieri
Natale d’estate
Compleanno dell’Hotel des Geneys Splendid
- Premiato l’Hotel Sommeiller
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Sant’Escrivá nell’album di Bardonecchia
Foto e testimoni
ORMAI più di vent'anni fa usciva la pubblicazione “Bardonecchia nel cassetto”, curata dal Comune e dal Gruppo attività culturali di Bardonecchia, che fu di sprone a scovare e rivalutare, come piccolo patrimonio storico, le vecchie fotografie depositate nei cassetti delle nostre case. Chi scrive questo articolo ha desiderato a lungo, un po’ come i bambini quando “chiedono la luna”, che una fotografia in particolare spuntasse fuori, prodigiosamente, da qualche parte, ritraendo il Santo fondatore dell’Opus Dei, sullo sfondo della nostra conca alpina. Questo scritto è la confessione di quel desiderio.
Un bel libro, pubblicato in questo stesso anno 2011 dalla benemerita casa editrice torinese Lindau, che ha la sua sede legale in corso Re Umberto, offre lo splendido lavoro di Bruno Mastroianni e presenta  una biografia per immagini del fondatore dell’Opus Dei, San Josemaría Escrivá. Prima di leggerne con calma e gusto le ricche parti scritte, l’ho sfogliato tutto in un batter d’occhio e con un po’ di batticuore, perché nutrivo la segreta speranza di trovarvi una fotografia, o qualche traccia del passaggio del santo sacerdote a Bardonecchia. Non avendola trovata nell’immediato (anche se, guardando poi meglio, con più attenzione, qualche traccia – seppure indiretta – vi si trova), ne sono rimasto lì per lì un po’ deluso. Sì, perché da decenni avevo accolto e trattenuto nellamemoria imprecisate informazioni su di uno o più passaggi, e addirittura su di un soggiorno, almeno per una notte, nella nostra perla delle Alpi. Era stato un caro amico e padre, sacerdote della Prelatura della Santa Croce e dell’Opus Dei a richiamare il fatto, per altri, forse, d’interesse relativo, ma non per me.
Condividiamo ora, insieme, il sogno dell’autore del libro: ricreare, per esempio in una delle nostre case o in canonica, ciò che accade quando si sfoglia un album fotografico in famiglia e, indicando le foto, si chiede a genitori e parenti di raccontare le storie delle persone che vi sono ritratte. La passione nel cercare tratti bardonecchiesi di alcuni Santi, non mira ad un resoconto biografico, ce ne sono altri documentati e convincenti, specialmente in questo caso. Si tratta, bensì, del bisogno di narrare, ma come si raccontano le cose tra amici, citando aneddoti e fatti, per rendere gli altri partecipi della bellezza del ritratto di un Santo, fatto in maniera semplice e vivace, con pennellate forse rudimentali, ma che rendano il volto vero della persona. Alla fine è la gioia del trarre profitto dal tanto bene che può fare nella vita – fino a sconvolgerla e cambiarla – l’incontro con un Santo, il sentirlo così vicino, quasi trattenerlo ad accompagnarti nel tuo cammino esistenziale. I Santi, infatti, sono «uomini in carne ed ossa.
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Le loro storie assomigliano alle nostre storie. Vite di persone comuni, con le stesse difficoltà e gli stessi limiti, con le stesse gioie e gli stessi dolori, con vittorie e con sconfitte.
I Santi non sono autori di gesta memorabili, ma uomini capaci di scoprire l’amore di Dio dentro i gesti più ordinari»1.

Piedi scalzi sulla neve
Questa è anche la storia di Mons. Escrivá che una mattina del gennaio 1918, appena sedicenne, uscendo di casa dopo una notte in cui aveva nevicato, vide per strada delle orme di piedi scalzi sulla neve. Rimase profondamente colpito e si domandò: se altri fanno tanti sacrifici per Dio e per gli altri, io non sarò capace di offrirgli nulla? Seguì incuriosito quelle orme scoprendo che erano di un Padre carmelitano scalzo del monastero vicino alla casa degli Escrivá. L’incontro con quelle orme provocò una sorta di svolta nella sua vita spirituale; da allora in poi, si sarebbe dedicato con tutte le forze alla ricerca della volontà di Dio2. Ho sempre accostato a questa immagine una bella fotografia, riapparsa più volte negli anni nei nostri Bollettini: ritrae Mons. Rousset, prima di diventare Vescovo a Ventimiglia-Sanremo, quand’era ancora Parroco in posa in mezzo a mucchi di neve, con la sua bella mantellina nera, davanti alla casa parrocchiale. Quante volte i nostri sacerdoti hanno lasciato le loro orme sulla neve, per andare in chiesa a celebrare i Divini Uffici, o in cerca delle anime da nutrire e santificare. Da quelle orme sulla neve è partito il lungo viaggio di questo aragonese che sarebbe diventato il patrono della santificazione delle cose quotidiane, o meglio di tutti coloro che sono consapevoli di una realtà vissuta fin dal tempo dei primi cristiani, che fra loro si chiamavano “santi”; una realtà ribadita dal Concilio Vaticano II: tutti i battezzati sono candidati alla santità.
Nella mattinata del 6 ottobre 2002, in piazza San Pietro, in via della Conciliazione e in tutte le strade adiacenti una folla compatta, più di trecentomila persone, pendeva dalle labbra di Giovanni Paolo II che stava pronunciando l’omelia per la canonizzazione del sacerdote fondatore dell’Opus Dei: «Elevare il mondo a Dio e trasformarlo dal di dentro: ecco l’ideale che il Santo Fondatore vi indica. Seguendo le sue orme, diffondete nella società, senza distinzione di razza, classe, cultura o età, la consapevolezza che siamo tutti chiamati alla santità». Era bello volare con lo sguardo per osservare i tratti del viso, le fogge del vestire, il modo di esprimersi dei trecentomila fedeli in una varietà piena di fantasia. Il Papa continuava: «Per portare a compimento una missione tanto impegnativa,
occorre però un’incessante crescita interiore alimentata dalla preghiera. San Josemaría fu un maestro nella pratica dell’orazione, che egli considerava come straordinaria “arma” per redimere il mondo». Dieci anni prima, il 17 maggio 1992, quando lo stesso Sommo Pontefice lo proclamava Beato, ebbi la grazia di essere già presente, al fianco del Parroco di Bardonecchia mons. Bellando. Vivemmo un’indimenticabile ed esaltante esperienza di Chiesa, consapevoli che si trattava di un riconoscimento importante ad un cammino che, aprendosi, aveva aiutato decine di migliaia di laici cristiani, guidati da sacerdoti preparati e zelanti, a santificarsi nelle faccende più ordinarie.
1 S. Josemaría Escrivá. Una biografia per immagini del fondatore dell’Opus Dei, a cura di Bruno Mastroianni, Lindau
srl ed., Torino, 2011, pag. 14.
2 Cfr. ibidem ut supra, pag. 22.
Materializzare la vita spirituale
In decenni di frequentazione e di amicizia con sacerdoti e laici membri della Prelatura, partecipando spesso e volentieri alle iniziative, incontri e momenti formativi, sono stato testimone di un mondo di bene soprannaturale. Potrei raccogliere in un libro episodi, esperienze di vita che si intrecciano di  legami di bene spirituale. Ce n’è uno che mi ha sempre aiutato molto, dopo averlo raccolto dalla personale esperienza di Mons. Javier Echevarrìa, l’attuale Vescovo Prelato dell’Opus Dei. Il 18 maggio 1972, a fine giornata, Mons. Escrivá con Mons. Del Portillo suo primo successore e Mons. Javier, seguivano le notizie del telegiornale.
Intervistarono una famosa ballerina di danza classica, celebre per le sue doti artistiche, la quale confidava che, tornando alla sbarra degli allenamenti la mattina successiva a un grande successo,  scopriva che i muscoli erano completamente rigidi, impossibilitati a ripetere le figure e il ritmo del giorno prima.
Mons. Escrivá commentò:
«In questo mondo nulla si ottiene senza sforzo; soltanto cominciando e ricominciando più volte si riesce ad assaporare il dialogo con Dio, che si perde se non vi è un miglioramento, se nell’anima manca la continua preoccupazione di vivere per il Signore. Per amare davvero Dio, bisogna sforzarsi di  amarlo continuamente». Ci sono personalità, ecclesiastiche e non, convinte che S. Josemaría abbia la tempra di un Padre della Chiesa e che, un giorno, potrebbe anche essere riconosciuto come Dottore della Chiesa. Certo è che quando lo si adotta come maestro di spirito,  ci si trova immersi in una miniera di inestinguibile ricchezza, da cui poter continuamente estrarre e ricavare non metalli e pietre preziose, ma validi ed efficaci insegnamenti di vita. Quella vita che è una sola, come richiamava il Santo, quando insisteva, specialmente con i giovani: «Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev’essere – nell’anima e nel corpo – santa e piena di Dio: questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali. Non vi è altra strada o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai (...)»3
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L’ALLEGRIA DEI FIGLI DI DIO – San Josemaría
sosteneva che uno dei tratti distintivi dei figli di Dio è la
gioia. La virtù cristiana tra il fondatore non era compatibile
con “la faccia lunga e i modi bruschi”. Ma non era
solo una conseguenza del suo carattere allegro e pieno di
spirito, era una consapevolezza che nasceva dal suo
vivere alla presenza di Dio. Egli scriveva: «Manca la
gioia? - Pensa: c’è un ostacolo fra Dio e me. - Indovinerai
quasi sempre». Era convinto che l’allegria ha una
radice soprannaturale, mentre la tristezza, l’abbattimento
sono qualcosa di demoniaco. Con il suo modo di
fare contagiava chiunque gli stava attorno, e accanto a
lui si poteva toccare con mano la serenità della pace di
chi è completamente abbandonato in Dio. Nella foto è
ritratto mentre, come era solito fare, diceva di avere sette
anni (ne aveva 70) era il suo modo di vivere come un
bambino davanti a Dio, non per infantilismo, ma con la
consapevolezza spirituale che l’uomo non può nulla
senza suo Padre.
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Legami di santità
La parrocchia di Bardonecchia ha avuto fin dalla metà degli anni ’70 uno speciale e crescente legame con l’Opus Dei, o sarebbe meglio dire con numerosi sacerdoti e fedeli della Prelatura. 
Il Clero di Bardonecchia ha frequentato ed usufruito di momenti di formazione a Roma, ad Urio, a Torino, partecipando a Convegni, periodi di Ritiro, giornate celebrative, ecc. Molti fedeli che appartengono alla Prelatura o ne praticano le attività, specialmente villeggianti soprattutto dalle province di Torino, Genova Milano, Roma e altrove, trascorrono le loro vacanze – o i fine settimana – da noi e sono abitualmente seguiti da sacerdoti che vengono appositamente ad incontrarli a Bardonecchia. Qui entriamo nell’attività principale dell’Opus Dei, consistente nel dare i mezzi spirituali necessari per vivere da buoni cristiani, in mezzo al mondo. Lo diceva ripetendolo quasi fosse il ritornello di una canzone amata il Fondatore: «Il fine dell’Opus Dei è la santità di ognuno dei membri ... la mia unica ricetta è questa: essere santi, voler essere santi con santità personale». Caratteristica dell’Opera, condivisa da sempre, si può dire, nella nostra parrocchia di Bardonecchia, usufruendo, condividendo, partecipando e favorendo tali mezzi di formazione alla santità. Diceva San Josemaría: «Siamo povere creature, eppure con l’aiuto della grazia troviamo oro puro, smeraldi e rubini dove altri non scorgono che fondi di bottiglia». Valorizzare e vivere l’umano, nella luce della volontà di Dio, facendo di tutto per amare il Signore e il prossimo, come lui vuole che siano amati.
Ancora ultimamente, nelle ultime festività natalizie del 2011, un bel gruppo di giovani da Torino, con un sacerdote della Prelatura è stato ospite di una famiglia villeggiante a Bardonecchia, per giornate di Ritiro, partecipando alle nostre celebrazioni di fine-capo d’anno. Ci fu un tempo in cui si è cercato di poter offrire alle attività formative dell’Opera una casa che fosse adatta allo scopo, usata in modo permanente durante l’anno con tale finalità. Vennero vagliate diverse ipotesi (tra cui quella del Cenacolo Domenicano), senza ancora giungere a concretizzare, per ora. Ma la provvidenza è grande e Bardonecchia particolarmente adatta. Perché?
Per le strade di Bardonecchia3 Colloqui, n. 114 s.
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Io credo che tra tutte le ragioni che spiegano il legame tra l’Opus Dei e Bardonecchia, non bisogna dimenticarne una: la presenza del Santo a Bardonecchia. I suoi passi sulle strade della nostra cittadina, hanno lasciato un seguito, sono una traccia con una sequela ininterrotta, proprio come diceva Escrivá che aveva fatto quasi un motto di questi suoi consigli: «Che la tua vita non sia una vita sterile – Sii utile. – Lascia traccia. – Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore ... Incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore» (Cammino, 1). Fra questi “cammini” incendiati dal fuoco di Cristo che portava nel cuore San Josemaría ci sono i nostri, quelli bardonecchiesi. Me lo ha  confermato ancora una volta, recentemente e nel modo più dettagliato possibile, un accompagnatore ben noto da noi, don Giorgio De Filippi, sacerdote appartenente alla Prelatura Personale della S. Croce, che fu per molti anni a Torino e che conta tanti buoni amici tra i villeggianti ed i residenti a  Bardonecchia e, dopo la mia insistenza ha fatto le ultime ricerche nelle sue vecchie agendine, riscontrando che nel maggio 1957, quando la sorella di Mons. Escrivá era gravemente malata, egli attraversò la Valsusa per recarsi a Lourdes. Il 21 dimaggio lamacchina fu caricata sulla navetta Bardonecchia-Modane. Rientrò poi dal Moncenisio. Un’altra volta, invece, nel settembre 1957, rientrando da Modane a Bardonecchia, per un altro viaggio in Francia, ci furono dei disguidi che provocarono ritardo. Si fermò così con gli accompagnatori (fra cui don Giorgio) a pranzare al ristorante Bucaneve. Si potrebbe pensare che potrebbe essere passato anche a fare una visita in chiesa, o in Parrocchia o all’Ausiliatrice o, forse al Convento Francescano che era di strada. Ma non ci sono prove o ricordi su questo. Ciò che sappiamo è però quanto ci basta.
E se non sono state fatte fotografie a immortalare il fatto, noi ci accontentiamo di guardare questa che pubblichiamo dove nel 1960, il fondatore dell’Opus Dei bacia le pareti della grotta di Lourdes, richiamando quanto disse una volta: «Abbiamo riempito le strade d’Europa con la recita di tante Avemaria e con tante canzoni»4. È bello ed anche commovente pensare che fra le strade d’Europa anche quelle di Bardonecchia si sono riempite delle Avemaria di questo Santo dal grande, fascinoso carisma. 
Spes messis in semine: la speranza del raccolto sta nella semente, e quella disseminata nella nostra cittadina era di quella buona, perché continua a portare frutto.
don Claudio Jovine
4 Ibidem ut supra, pag. 115.
S. Josemaría Escrivá bacia la roccia della Grotta di Lourdes.
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Walter Bonatti negli annali bardonecchiesi!
«L’ITALIA ha detto addio ad una leggenda dell’alpinismo: Walter Bonatti», così scriveva il Corriere della Sera il 14 settembre 2011, annunciando la morte dello scalatore, avvenuta a Roma, ad 81 anni. Soprannominato “il re delle Alpi”, certo alcune sue grandi imprese di alpinista sono passate alla storia: nel 1951 la prima scalata della parete est del Grand Capucin sul Monte Bianco; nel 1954 fece parte della spedizione italiana che conquistò il K2; negli anni seguenti compì altre imprese sul Monte Bianco, prima di chiudere la carriera con la prima scalata invernale in solitaria del Cervino nel 1965. Successivamente si dedicò alle attività di esploratore e reporter, oltre che alpinista e guida alpina è stato autore di molti libri e innumerevoli reportage.
Reinhold Messner ha detto di lui: «Bonatti è stato uno degli alpinisti più grandi della storia, l’ultimo alpinista tradizionale, fortissimo in tutte le discipline.Walter era però soprattutto una bellissima persona, tollerante e amorevole». A Bardonecchia risiedette per un tempo, svolgendo le sue attività alpine e sciistiche e, soprattutto, vi fu accolto “in trionfo”, in seguito all’impresa compiuta per il raid delle Alpi, accompagnato anche dal generale Longo, compiuto nel 1956, da Tarvisio (partenza il 16 marzo) al Colle di Nava (arrivo il 18 maggio).
L’Archivio del nostro Bollettino possiede due fotografie che volentieri ripubblichiamo. In una è ritratta l’accoglienza a Bardonecchia, dove è evidente un clima di euforica vittoria (dietro a Bonatti si intravede un giovane Giancarlo Castagno).
Nell’altra con il Parroco mons. Bellando sono ritratti il Bonatti ed il generale Lorenzo Longo di cui è utile ricordare che era nato a Bardonecchia nel 1922, che fece una brillante carriera militare, conclusa ad Aosta come Generale Comandante della Scuola Militare Alpina. Deceduto nel marzo del 2003. Aveva sposato Elia Giuseppina Chareun, prozia dell’ex Sindaco dott. Francesco Avato. Da sinistra: Bonatti, monsignor Bellando, Generale Lorenzo Longo. [foto: Archivio]
Dietro a Bonatti, sulla sinistra,
il giovane Giancarlo Castagno. [foto: Archivio]
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Cottolengo in festa per la Beatificazione
di don Francesco Paleari
Il nostro villeggiante ing. Silvio Guizza, che nei periodi di vacanza a Bardonecchia frequenta la nostra chiesa di S. Ippolito, ha intensamente vissuto sabato 17 settembre 2011, presso la chiesa della Piccola Casa della Divina Provvidenza (Cottolengo) di Torino, la celebrazione per la Beatificazione del Servo di Dio don Francesco Paleari, essendo lui il miracolato che ha permesso alla Congregazione delle Cause dei Santi, dopo avere riconosciuto il miracolo il giorno 10 dicembre 2010, di portare il
Paleari agli onori degli altari.
CHARITAS CHRISTI URGET NOS: questo messaggio, che campeggia ovunque nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, ci ricorda una grande verità, e cioè che l’amore di Dio ci è sempre vicino, ci accompagna e quasi ci incalza, anche quando noi non ce ne accorgiamo. Questa realtà l’ho  perimentata personalmente attraverso l’intercessione di un piccolo grande prete del Cottolengo, don Francesco Paleari, che ha collegato la mia vita al processo che ha portato alla sua Beatificazione. È una storia che comincia tanti anni fa, nel 1946, quando ero un bambino di 10 anni.
Francesco Paleari nacque il 22 ottobre 1863 a Pogliano Milanese da una famiglia di modeste condizioni, penultimo di otto figli. Per opera del suo Parroco, che aveva colto in lui i segni della vocazione, fu mandato a studiare a Torino presso il Seminario dei Tommasini, fondato da San Giuseppe Benedetto Cottolengo per preparare sacerdoti per la Piccola Casa. Qui divenne sacerdote e trascorse il resto della sua vita con grande fervore di fede e di carità verso il prossimo, in cui profuse il meglio di sé. Le sue elevate qualità lo portarono anche a importanti incarichi nell’Archidiocesi di Torino: direttore spirituale del Seminario diocesano, Provicario generale e Vicario per la vita consacrata dell’Archidiocesi. Morì in odore di santità il 7 maggio 1939. Alcuni anni dopo, nel 1946, avvenne l’episodio che mi ha legato a don Paleari. Fui colpito il 17 giugno da una gravissima forma di meningo-encefalite da virus poliomielitico, che mi aveva reso completamente paralizzato, privo della parola e con la visione sdoppiata,mamantenendomi la capacità di comprendere cosa accadeva. La prognosi era molto incerta e in ogni caso era esclusa una guarigione senza menomazioni permanenti gravi. Non esistevano a quel tempo cure specifiche.
I miei genitori, entrambi medici dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino, furono esortati dalle Suore del Cottolengo, che a quei tempi operavano nell’ospedale, a pregare per me rivolgendosi a don Francesco Paleari, che godeva fama di dispensatore di grazie. Alcune buone Suore iniziarono anche una novena di preghiere per me. Sta di fatto che il 22 giugno mi addormentai verso mezzogiorno e dopo un lungo sonno mi svegliai alla sera: ero perfettamente guarito inaspettatamente e, soprattutto, rapidissimamente e senza nessuna menomazione residua, come se non fossi mai stato ammalato. Subito si disse che ero stato “miracolato”, poi piano piano quella lontana malattia dell’infanzia passò nell’oblio.
Cinquantotto anni dopo, nel 2004, ricevetti una telefonata da una persona che mi aveva  fortunosamente rintracciato e mi comunicava che nel riordinare un vecchio archivio del Cottolengo era stata trovata una cartellina con le relazioni dei miei genitori e di un altro medico circa la mia malattia e la mia guarigione, di cui io ignoravo l’esistenza, essendo state scritte quando ero un bambino; mi diceva anche che questa documentazione avrebbe avuto grande importanza nella causa di Beatificazione in corso di mons. Paleari, perché molto circostanziata e perché io ero tuttora testimone vivente del fatto.
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Infatti da questo momento in avanti l’iter è stato veloce: Tribunale ecclesiastico, Commissioni mediche e cardinalizie, e infine il decreto da parte di Sua Santità Benedetto XVI che la mia guarigione doveva ritenersi miracolosa.
Ed ecco, sabato 17 settembre 2011, la grande festa della Beatificazione nella chiesa del Cottolengo a Torino: una cerimonia solenne e gioiosa. Il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, ha presieduto la cerimonia. Erano presenti Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, il Card. Severino Poletto, Arcivescovo Emerito, una decina di Vescovi, fra cui il nostro Vescovo di Susa, il Padre della Piccola Casa, il Postulatore della Causa di Beatificazione e uno stuolo di sacerdoti, fra cui il nostro don Jovine, e tanti fedeli, fra cui spiccavano per la loro gioia le Suore della Piccola Casa: fra queste, ormai novantenne, anche una delle Suore che avevano pregato per me in quel lontano 1946. Io ho avuto l’onore di portare all’altare le reliquie del nuovo Beato, completando così la rara fortuna di vivere da protagonista le ultime fasi del processo di Beatificazione: dopo tanti anni, ormai marito, padre e nonno, ho visto delle documentazioni dei fatti di allora che non conoscevo, e che mi hanno aiutato a capire valori fondamentali come la preghiera.
Ed ora, con il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa, si manifestano le grandi virtù di un uomo e di un sacerdote buono e generoso, grande nella sua umiltà, che per me bambino ha intercesso presso Dio, ottenendo una grazia che mi ha fatto diventare testimone e protagonista delmessaggio Cottolenghino che ricordavo all’inizio e che è rivolto a ciascuno di noi: Charitas Christi urget nos.
Silvio Cuizza
L’ingegner Silvio Guizza
“il bambino miracolato”
con suor Rosa Renda e,
sullo sfondo, la foto del Beato
don Francesco Paleari.
[foto: dal numero unico
della Beatificazione]
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Signore, dove abiti? ... Vieni e vedi
Note su un “pellegrinaggio” alle Missioni di Goma e Nyamilima della Repubblica Democratica del Congo
Pubblichiamo parte di un articolo molto più ampio e articolato, frutto dell’esperienza e dei sentimenti del sig. Antonio Piemontese, diacono permanente della Parrocchia dei Santi Angeli Custodi di Roma che, nei periodi di vacanza, compie il ministero diaconale anche nella nostra Parrocchia di S. Ippolito, e di sua moglie Elena. La sua parrocchia romana di residenza é retta dall’Istituto dei Padri Caracciolini. I Religiosi Caracciolini, chierici regolari minori, sull’esempio del loro fondatore San Francesco Caracciolo, apostolo dell’Eucaristia e padre dei poveri, operano anche in Africa, India e nelle Filippine. Oltre all’annuncio del Vangelo, i missionari sono impegnati nella realizzazione di opere umanitarie per un processo di sviluppo e liberazione dei popoli afflitti da condizioni disastrose e drammatiche per la sopravvivenza.
IL nostro viaggio, avente comemeta lemissioni caraccioline di Goma e Nyamilima, in Alto Kivu, nella regione dei Grandi Laghi, nella Repubblica Democratica del Congo, è iniziato mercoledì 23 agosto 2011, per ritrovarci, dopo varie ore di aereo, come catapultati in un mondo tutto nuovo, ospiti presso il Seminario caracciolino, adiacente alla chiesa “Maison St. Joseph”, alla periferia di Goma. Ci siamo subito resi conto di quanto i sacerdoti caracciolini compiono, notte e giorno, per rendere il più possibile “umana” l’esistenza di migliaia di persone che, dimenticate dal nostro opulento, ricco e sazio mondo occidentale, conducono, per la loro stragrande maggioranza, una vera e propria lotta per la  vita, in condizioni che sono al limite della sopravvivenza. Abbiamo visto con i nostri occhi situazioni veramente incredibili. Abbiamo visto uomini, donne e bambini, anche piccolissimi, che trascinavano la loro esistenza tra stenti, fatiche e privazioni, nel tentativo di guadagnarsi quotidianamente un pugno di manioca o di riso, strappati a una dura terra; bambini che vivono e crescono in condizioni igienico-sanitarie da definire “al limite dell’epidemia”, conseguenza della mancanza di acqua potabile, alla penuria di medicinali, alla precarietà di energia elettrica.
Ciò comporta una mortalità infantile elevatissima e un’attesa di vita per gli adulti che ci è stata quantificata tra i 55-60 anni.
Dopo circa una settimana, da Goma ci siamo spostati a Nyamilima, dove la vita, per la maggior parte della gente, decisamente è più accettabile, grazie allo sforzo dei missionari caracciolini, che da oltre trent’anni operano sia sul piano spirituale che umano, sociale, culturale e sanitario.
Il diacono Antonio Piemontese e sua moglie Elena durante il loro viaggio
nella Repubblica Democratica del Congo. [foto: collezione A. Piemontese]
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Ciò che ha prodotto in noi stupore e meraviglia è stato il constatare la gioia, l’entusiasmo, la partecipazione e le genuinità della fede di questa comunità, con i loro canti e danze liturgiche che esprimono la ricca e coinvolgente cultura locale. Quali e quanti insegnamenti abbiamo tratto da questi fratelli congolesi che, pur necessitando di tutto, pregano principalmente per ringraziare. Non si lamentano contro il Signorema, viceversa, rammentano che siamo in costante debito verso di lui, per quel poco che gratuitamente ci dona. Tutto è dono di Dio. La Missione è in grado di fornire energia elettrica per il funzionamento delle principali infrastrutture, di promuovere posti di lavoro, di provvedere alla manutenzione della rete viaria principale, e, soprattutto, grazie alla formula “adozione a distanza”, al sostentamento materiale e scolastico di circa tremila bambini e a un contributo alimentare mensile alle loro famiglie, grazie a soli 21 euro mensili, donati da coloro che hanno aderito all’iniziativa, dell’adozione a distanza.
È quanto ci sentiamo di proporre, al termine della nostra esperienza a Goma e Nyamilima, anche a tutti voi: rinunciare, magari, a “una pizza e birra”, una volta al mese e donare l’equivalente di X 21 per “adottare a distanza un bambino” e aiutarlo a vivere, crescere, mangiare, vestire, curarsi, contattando l’e-mail: antoniopiemontese@fastwebnet.it - oppure: 06.87139855 - 333.2952729.
Elena e Antonio Piemontese, diacono permanente

IL PONTE DI FONTANA GIOLITTI SARÀ RICOSTRUITO
Lo storico ponte, demolito nel 2009 per poter risistemare
gli argini del torrente Valle Stretta, non si sapeva se e quando sarebbe stato ricostruito. Facile e abituale accesso alla passeggiata che porta al Campo Smith, ci è subito mancato e ci manca molto ancora adesso. Troppe passeggiate sulle pendici del monte Bramafam partivano da lì: il forte Bramafam con il suo museo, la Vie du Viò, il Pian del sole, il Bersac ed altri ancora. E non dobbiamo dimenticare le due processioni estive: il 26 luglio alla Cappella di S. Anna e l’11 agosto alla Cappella di S. Francesco e S. Chiara al Bersac.
La mancanza del ponte ha nel frattempo degradato l’area della Fontana Giolitti e ha creato qualche disagio a quanti, partiti dal Campo Smith ignari della mancanza del ponte, sono dovuti tornare indietro.
Finalmente, nello scorso mese di agosto, l’Amministrazione Comunale ha accolto le numerose richieste e ha messo due cartelli che spiegano a turisti e cittadini le ragioni dell’intervento e il proposito di predisporre, quanto prima possibile, una nuova e graziosa passerella pedonale.
Aspettiamo con pazienza e in attesa percorriamo altri sentieri o raggiungiamo le Quattro Strade attraversando il ponticello nei pressi del Villaggio Olimpico.
Giorgio Malavasi
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Celebrazione estiva di San Benedetto
a Grange Moutte (11 luglio 2011)
TRA le celebrazioni estive del mese di luglio, dal 2005 la comunità parrocchiale ha potuto ripristinare un’antica tradizione, ovvero la Messa officiata presso l’edicola votiva di San Benedetto alle Grange Moutte. È infatti da quell’anno che la pregevole opera di ricostruzione compiuta dalla famiglia Chiesa ha permesso a Bardonecchia di riappropriarsi di un pezzo di storia locale, tramandata per via orale dai nostri predecessori, che voleva la presenza di un pilone settecentesco dedicato al Santo patrono d’Europa sulla via che sale alle Grange Chaffaux e Vernet.
Ne ripercorre le vicende relative alla fondazione un manoscritto, redatto in francese e presente negli archivi parrocchiali, di cui don Franco dà lettura nel corso dell’omelia pronunciata durante la Messa di quest’anno, preceduta dalle tradizionali salita a piedi in gruppo e recita delle cinque tappe dei misteri del Rosario. Ecco le parole del manoscritto, giunte a noi da un remoto passato:
«La Chapelle de Saint Benoit de la Motte, située sur le grand chemin du Chafaud, fut batie en 1714, par Benoit Galaud et Elisabette Garcin, sa femme ... [essi] l’hanno dotata di due fondi di terra, valutati al momento attuale 4 soldi e mezzo e, sulla rendita dei due fondi, hanno fondato sei Messe, da celebrarsi nella detta cappella. La suddetta Elisabetta Garcin, mediante donazione e lascito in caso di morte, da testamento del 12 aprile 1725 ricevuto dal notaio Agnès, ha donato un campo di canapa situato nel quartiere dei Furies, con la clausola della celebrazione di due Messe basse, a fondo perduto. Il sig. Bernardo Ambrois ha legato alla stessa cappella un terreno alle “Manne”, valutato 4 soldi e mezzo, la cui rendita deve essere impiegata per la celebrazione di un numero proporzionale (pro-rata) di Messe basse. Il Sig. Curato è garante a vita». Gli oltre 290 anni trascorsi dalla redazione di questo documento agli anni duemila hanno quasi cancellato le tracce della presenza della cappelletta, fino all’intervento operato e finanziato dai coniugi Chiesa e dai loro  familiari, che, nel 2005, l’hanno ricostruita e, di concerto con il Parroco, contribuito a ripristinare nel novero del calendario delle celebrazioni estive presso le borgate di montagna, la festi- Cappelletta di San Benedetto alle Grange Moutte. [foto: C.Marino]
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vità di San Benedetto. È dunque da sei anni che si è tornati a recitare il Santo Rosario e celebrare la Santa Messa nella zona della Moutte: al termine dei riti è graditissima consuetudine dei custodi del pilone votivo offrire ai partecipanti una ricca colazione, rallegrata dalle note della fisarmonica di don Renzo Virano, sacerdote salesiano e concelebrante della Messa con il Parroco.
La bella edicola, sempre adornata di fiori, ci ricorda anche la storia del Santo cui è dedicata: San Benedetto da Norcia, nato da famiglia benestante nel 480 d.C. circa, fratello di Santa Scolastica e fondatore dell’Ordine dei Benedettini, proclamato nel 1964 da Papa Paolo VI Patrono d’Europa poiché «messaggero di pace, operatore d’unità, maestro di civiltà e soprattutto araldo della fede e iniziatore della vita monastica occidentale».
In un mondo quale era quello a cavallo del V e VI secolo, sconvolto da una grande crisi di valori e istituzioni, determinata dal crollo dell’Impero Romano, dalle invasioni barbariche e dalla decadenza dei costumi, la sua opera e la sua Regola apportarono un autentico fermento spirituale che valicò i confini della sua patria per diffondersi in Europa, suscitando, dopo la caduta dell’unità politica, una nuova unità spirituale e culturale: quella della fede cristiana condivisa dai popoli del Continente.
Alla morte della madre, all’età di 12 anni, egli fu mandato a Roma per completare gli studima fuggì disgustato dal dilagantemalcostume e dalla vita dissoluta della città e si ritirò dapprima nella valle dell’Aniene e, successivamente, divenne eremita tra le solitarie rupi di Subiaco «desiderando di piacere soltanto a Dio», come scrisse il suo biografo San Gregorio Magno. Trascorsi così tre anni, nell’anno 500 accettò di diventare superiore emaestro di una comunità cenobitica, i cuimonaci furono attirati dalla
sua vita santa. Sfuggito ad un tentativo di avvelenamento, tornò a Subiaco. Qui, predicando la Parola del Signore ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fondò, nel corso di trent’anni, tredici monasteri, ognuno con un proprio abate. Negli anni tra il 525 ed il 529, Benedetto lasciò Subiaco e si recò a Cassino, ove fondò il monastero di Montecassino e ove redasse la sua Regola monachorum, con la quale diede una nuova ed autorevole sistemazione alla complessa precettistica monastica precedente. Basata su due cardini della vita comunitaria (l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stessomonastero e la buona condottamorale, la carità reciproca e l’obbedienza all’abate, padre e non superiore), la Regola scandisce inoltre il ritmo del tempo e della vita all’interno delmonastero, alternando lettura della Parola di Dio, lodi liturgiche e preghiere con il lavoro, nel segno del motto “ora et labora”, e qualifica la vita monastica come «una scuola di servizio del Signore», «simbiosi feconda tra azione e contemplazione».
Benedetto morì, vicino ai settanta anni, il 21 marzo del 547 a Montecassino, quaranta giorni dopo la scomparsa della sorella Scolastica: le comunità benedettine ricordano tale data come ricorrenza della morte del Santo mentre la Chiesa ne celebra la festa l’11 luglio.
Montecassino è ancora oggi venerato luogo del sepolcro dei due Santi, fratello e sorella, e la città di Cassino e i Comuni circostanti tuttora rientrano nella giurisdizione pastorale del suo abate.
Nel solco di San Benedetto sorsero in Europa centri di preghiera, di cultura e di ospitalità per i poveri e i pellegrini, tanto che due secoli dopo la sua morte saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola, apportatori di una rinascita di civiltà in tutto il Continente.
Insieme a San Benedetto patroni del Continente europeo, quali personaggi che hanno operato in modo straordinario alla sua unità, sono anche i Santi Cirillo e Metodio, apostoli evangelizzatori delle regioni orientali, Santa Brigida di Svezia, Santa Caterina da Siena e Santa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein.
L’edicola votiva delle Grange Moutte ricorda a tutti come San Benedetto abbia «dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. Ponendo fine all’antichità egli ha contribuito a rinnovare il mondo: tutti diventano “eguali” e “fratelli”, una cosa sola con stesse leggi e stessi diritti», non rifuggendo il  mondo stesso ma servendolo con la preghiera ed il lavoro. Perciò la sua Regola non rimase italiana,ma diventò subito europea e in tempi di grandi crisi come quelli che anche noi ci stiamo trovando a vivere, l’esempio di San Benedetto ci indica come sia sempre possibile aprire strade nuove alla  civiltà.
Chiara Marino
FONTI e APPROFONDIMENTI:
Chapelle de Saint Benoit de la Motte - Atto di Fondazione e Voto - 1714-1725 - Archivi Parrocchiali
– S. GREGORIO MAGNO, Vita di San Benedetto, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2009
– S. BENEDETTO, La Regola, San Paolo Edizioni, 2009
– D. AGASSO, San Benedetto da Norcia, abate e patrono d’Europa - Famiglia Cristiana
– L. SALVATORELLI, San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Laterza, 2007

Concistoro del 20 novembre 2010. Visita di calore del Cardinale Bertone al neo-Cardinale Amato.
[foto: L’Osservatore Romano]
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Raduno dei doganieri
IL 4 giugno 2011 si è svolto a Bardonecchia il primo raduno “nazionale” dei funzionari dell’Agenzia delle Dogane che hanno prestato servizio presso l’ex Dogana Internazionale di Modane tra la fine degli anni ’50 ed il gennaio 1993, anno della definitiva chiusura della Dogana Italiana di Modane, a seguito dell’abbattimento delle frontiere all’interno dei Paesi dell’Unione Europea. Hanno partecipato al  raduno oltre 80 persone, provenienti da molte Regioni d’Italia: Sicilia, Sardegna, Puglia, Campania, Lazio, Toscana, Marche, Emilia Romagna, Liguria, Veneto, Lombardia, e da tutte le province del Piemonte.
Lo spirito corporativo, di amicizia e solidarietà, cresciuto durante gli anni di servizio alla frontiera tra i colleghi , da sempre e da tutti ribattezzati “modanini”, non è venuto mai meno e, anche a distanza di 18 anni dalla chiusura della dogana, quasi giornalmente i doganieri ancora in servizio hanno e  mantengono contatti tra loro in particolar modo telematici.
Proprio negli ultimi tempi era forte il desiderio di rincontrarsi; la decisione di rivedersi è stata presa in occasione del 2011, anno particolare, anno di festeggiamenti per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia: questo raduno “nazionale” ha voluto anche celebrare l’importante ruolo istituzionale delle dogane in concomitanza di questo importante anniversario dell’unità nazionale.
Per qualche mese ha fatto il giro in tutta l’Italia, via internet, un’originale locandina dell’invito al raduno che recitava: «ALT DOGANA ... fermati e presta attenzione, in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, a 140 anni dall’apertura del traforo ferroviario del Frejus e dopo 18 anni dalla chiusura della mitica Dogana Internazionale di Modane, tutti quelli che hanno contribuito a quel pezzetto di storia italiana, poco o tanto, per amore o per forza, volentieri o meno, ma che comunque c’erano, sono invitati al primo raduno nazionale degli ex di Modane».
Foto ricordo del primo raduno nazionale dei funzionari dell’Agenzia delle Dogane
che hanno prestato servizio presso l’ex dogana internazionale di Modane. [foto: collezioneM. Pappalardo]
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Sebbene a Modane, da tempo immemorabile, ci sia sempre stata una dogana italiana, la sua nascita istituzionale vera e propria come dogana internazionale (ufficio italiano in territorio estero) risale con l’apertura del traforo ferroviario del Frejus, il cui ideatore e nostro concittadino, Francesco Medail fu anche commissario di dogana e tra i suoi discendenti era presente al raduno la “modanina” nostra concittadina Ernesta Allemand.
Il raduno è stato ideato dalla “modanina” e bardonecchiese Maria Pappalardo, coadiuvata nell’organizzazione dalla collega Anna Scalenghe di Bussoleno, entrambe attualmente in servizio a Torino, consigliate e indirizzate nella ricerca dei nominativi dei doganieri in servizio a Modane negli anni ’60-’70 dai colleghi in pensione Augusto Ercolino, Celestino Sussetto, dallo stesso Francesco Portulano e da Vincenzo Gioacchino di Torino e da alcuni colleghi che si sono interessati per il sud Italia: Raffaele Carracchia da Lecce e Antonio Enipeo da Napoli.
Il programma prevedeva per il 3 giugno una “rimpatriata” a Modane per rivedere i luoghi di lavoro. All’epoca erano dislocate, nel territorio di Modane, 5 sezioni per le operazioni doganali ferroviarie import/export e controllo viaggiatori; 2 sezioni per le operazioni doganali su strada e una sezione nel territorio di Bardonecchia, con annesso anche il valico stagionale del Col della Scala a Melezet. Di queste 8 sezioni, dipendenti dalla Dogana Italiana di Modane, ben 4 erano aperte 24 ore, ovvero 365 giorni l’anno.
Il programma per la giornata del 4 giugno, oltre al pranzo conviviale, che si è tenuto presso l’Hotel Sommeiller di proprietà della famiglia di Francesco Portulano – anche egli ex modanino – prevedeva, nel tardo pomeriggio, la celebrazione di una Santa Messa di suffragio in memoria dei colleghi scomparsi. Durante il pranzo sono stati vissuti due momenti di particolare rievocazione con la consegna di un oggetto ricordo alla collega e al collega più anziani – Assunta Anzideo e Domenico Mellano – e, a tutti i partecipanti, una pergamena su cui, oltre a ricordare lemotivazioni del raduno, è stata scritta una frasemolto toccante: «Per rinnovare l’amicizia e la solidarietà che hanno unito, nel tempo, tutti quelli che hanno contribuito a quel pezzetto di storia italiana e, in memoria di quelli che ci hanno lasciato ma che sempre vivono nei nostri ricordi».

I fiori in memoria degli impiegati di dogana defunti, portati dalle vedove di Bruno Barbagallo, Gennaro Tosti e Maurizio Avato. [foto: coll.M. Pappalardo]
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In ricordo dei colleghi scomparsi è stata celebrata una S. Messa, presso la parrocchia di Sant’Ippolito, officiata dal Parroco don Franco Tonda, che ha espresso parole di elogio verso tutti coloro che sono giunti damolto lontano: il Parroco hamesso in evidenza la storia bi-millenaria delle dogane e l’importante ruolo che ancor oggi ricoprono. «In questi giorni di fermento organizzativo, ho scoperto che dogana non significa solo tasse,ma è un lavoromolto più ampio ...», ha commentato il Parroco, «... lavoro che presta un immenso servizio di protezione e di tutela nazionale, un lavoro che bisognerebbe davvero fosse conosciuto fino in fondo». Nel corso dell’offertorio alcuni doganieri in divisa hanno omaggiato la chiesa di oggetti ricordo: un portafoto con immagini raffiguranti i luoghi del loro lavoro, un distintivo, un pettorale usato in servizio e una composizione di fiori in omaggio alla memoria dei colleghi scomparsi, portata all’altare dalle vedove dei “modanini”Maurizio Avato, Bruno Barbagallo e Gennaro Tosti che, come Nazzareno Pappalardo, sono deceduti in Bardonecchia, nominati dal Parroco insieme a tanti altri colleghi che sono rimasti nei cuori dei presenti, visibilmente commossi per i sentimenti e le emozioni vissute durante la S. Messa.
Questo “raduno” è stato un “amarcord” molto sentito e apprezzato, e l’Agenzia delle Dogane ha voluto darne notizia riportando l’evento sulla propria rassegna stampa del 6 giugno, dandone notizia anche presso la Comunità Europea a Bruxelles ed esprimendo parole di elogio per questa giornata svoltasi a Bardonecchia.
Maria Pappalardo
Classe 4ª Elementare - Maestra Alfonsina Fontan Durante
Alunni da sinistra in alto: Ferrero Giuseppino, Comotti Aldo, Guiffrey Silvio, Durand Bruno, Piovera Giuseppe, Beretta Piero, Vallory Piero, Dain Gino, Negro Filippo, Ainardi Renzo, Bothorel Michele. Alunne da sinistra - fila di mezzo: Yves Adelina, Gerard Luigina, Ambrois Natalina, Minasso Liliana, Spano Paola, Periccioli Rita, Ginevra Adriana, Zanetti Anna, De Marchi Anna. Alunne da sinistra - fila in basso: Sudati Rosanna, Bobba Silvana, Ambrois Clovis Ilda, Valt Lia, Guerra Franca, Faure Anna.
[foto: collezione Luigina GerardMaiocco]
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Natale d’estate
«DOVE si troverebbe questa grotta del Mian?». «Viene menzionata da un sito internet e indicata in qualche carta geografica ma non chiaramente. Dovrebbe aprirsi a 2.500 metri di altezza giusto a picco sopra Valle Stretta. Lasciando a sinistra il lago di Thures, bisogna deviare in direzione colle Croix du Vallon per piegare decisi verso ovest lungo esili tracce».
Non resta che salire e salire, mentre ai mormorii pensosi del bosco si sostituisce, più sopra, il profumo che trapela dai funghi laricini celati fra i cespugli; lasciano pregustare un’insalata da gustare in compagnia, rallegrati dal luccichio arancione del loro manto. Ormai prossimi alle cime, i cirmoli rassicurano: «Sei già abbastanza in alto, sudore e fatica ancora per poco». Intorno, praterie inverdite da un’estate ricca di pioggia e avara di fiori. Ma all’improvviso l’ambiente si trasforma in delirio pietroso che tuttavia non cancella del tutto il percorso facendosi strada attraverso un deserto appena animato da rari uccelli frettolosi di fuggire e da tracce antiche di greggi. Superati diversi costoni, ecco aprirsi un sipario: in primo piano la colonia quindi il Serà, il Thabor, Colle Valle Stretta e, irraggiungibili, le cime ghiacciate della Vanoise. In realtà, senza rendercene conto, siamo finiti sul ciglio di un abisso a picco sopra un remoto altopiano tra boschi e praterie che sovrastano a loro volta Pian della Fonderia. Ma il vento impietoso e gagliardo raffredda i nostri tremori.
Vicinissimo, l’arco sotteso di una selletta lascia spazio a qualche casolare giù in Valle Stretta. Però l’attenzione è attratta da un masso enorme in bilico sul baratro che presenta vaghe sembianze di una civetta, uccello invisibile alla luce del giorno.
«L’interno del Mian non solo riscalda ma rassicura e l’orlo della caverna forma una specie di cornice
che inquadra un panorama magnifico». [foto: G. Alimento]
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Forse timorosi della vertigine qui persino i sentieri si fanno indecisi, duplicandosi e quadruplicandosi. Chi ama la montagna sa che quei falsi percorsi non portano in nessun luogo venendo creati dal moto delle greggi alla ricerca dell’erba migliore. In base alle mappe, la grotta starebbe tra queste balze rocciose e inospitali, ma dove trovarla?
Senza coraggio di confessarlo, ci sentiamo pellegrini senza meta, canne sbattute in una faticosa ma vana ricerca. Minuti che durano ore finché all’ululato amaro delle folate subentra l’urlo dell’amico:
«L’ho raggiunta seguendo semplicemente i sentieri perduti!». Pochi metri di tensione sospesi nel vuoto finché ci rifugiamo nell’antro del tutto privo di umidità, pregno anzi di tepori inattesi, anche se nel nostro linguaggio “antro” trasmette piuttosto il panico dell’oscurità insieme alla minaccia di sentirsi racchiusi e privi di uscita.
L’interno del Mian non solo riscalda ma rassicura mantenendosi aperto verso l’esterno in quanto l’orlo della caverna forma una specie di cornice che inquadra un panorama magnifico, come i serramenti delle abitazioni più pregiate. Pulizia assoluta, nemmeno resti di fuochi accesi da qualcuno rifugiatosi all’interno per sfuggire a un temporale improvviso.
Nessuna traccia delle iscrizioni preistoriche che, secondo altri, avremmo dovuto trovare. Sono pochi i cuori incisi da escursionisti ingenui e romantici, mentre la roccia appare lieta di aver ceduto a minuscoli ma inequivocabili segni della fede cristiana: una mano ignota ma regolare e geometrica ha tracciato tante croci che ricalcano il lavorio dei Crociati sulle pareti del Santo Sepolcro a Gerusalemme.
«Qui persino i sentieri si fanno indecisi, duplicandosi e quadruplicandosi». [foto: G. Alimento]
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Piuttosto che alla Crocifissione, per me quei segni accennano la nascita di Gesù, avveratasi in una grotta della Giudea certo più accessibile delMian, non facile da raggiungere né da individuare persino in piena estate e in ogni caso preclusa nelle altre stagioni. «Non ho memoria di dipinti che inquadrino la Natività in ambiti tanto franosi, labili e desolati. Ricorda qualcosa di Betlemme questo lembo deserto di terra, sassi e rari ciuffi erbosi, ma in realtà si tratta di un sito ben più esposto e insidioso che fluttua alle prime nebbie per scomparire poi sotto la neve. Quasi fosse un luogo immaginario, una specie di non-luogo».
«Però all’interno ci sentiamo al riparo». «A ben vedere una simile nicchia potrebbe contenere al massimo i membri della Sacra Famiglia, mentre il bue e l’asinello resterebbero fuori sul ciglio del burrone. Per non parlare poi dei pastori con le greggi e dei Magi coi loro cammelli. Tuttavia mi sembra di vederli salire con affanno e circospezione come normali camminatori lungo il sentiero stretto e tortuoso: una simile Natività direbbe tutte le difficoltà della fede compresi dubbio e incredulità che segnano oggi molti cuori». «Anche se quei tratturi interrotti e perduti nel vuoto ci hanno guidato giusto alla meta».
«Fede significa dunque seguire tracce non solo incerte ma dirette a prima vista verso un baratro?».
«Forse al di là delle nostre intenzioni abbiamo colto in pieno giorno il segnale della civetta, un uccello notturno trasformatosi in navigatore satellitare che ci ha guidato come un’incredibile cometa di mezzodì». «Questi segni labili ma inequivocabili, quasi fossero fiori riflessi sul pelo dell’acqua,
sussurrano che mentre ci si orienta tra dirupi silenti e appartati entrano in azione i pistilli della nostra anima».
«E se Dio stesso prediligesse questi siti donandosi a chi rispettosamente li avvicina?».
Finite le ferie l’amico se n’è andato e mi sono mancati coraggio e volontà di ritornare alla grotta.
Ma a sera, scendendo verso Pian della Fonderia dove si raccolgono i sentieri provenienti dall’Alta Valle, il mio sguardo ritrova quei calanchi che dal basso appaiono ancor più inavvicinabili dei castelli in aria.
E mentre la Guglia Rossa si fa bella con l’ultimo sole, il costone che accoglie il Mian rimane in  controluce e quasi sopito. Lasciando intravedere gli enormi massi che reggono quel pendio in bilico e franoso come fossero quinte di una Basilica dedicata alla Natività.
Così sorge al tramonto la quiete della sera.
Guido e Luisa Alimento
Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato
verso il Cielo, è un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia,
insomma è qualche cosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e
mi unisce a Dio.
S. Teresa di Lisieux
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Compleanno dell’Hotel des Geneys Splendid
SONO trascorsi 75 anni da quando Natale Bosticco insieme ai suoi genitori scelse la pineta di Bardonecchia per costruire il suo albergo, e mercoledì 21 dicembre 2011 suo figlio Romano con la moglie Anne Marie ha voluto festeggiare questo eccezionale traguardo con amici, parenti e colleghi bardonecchiesi, offrendo loro una gran cena di gala.
Eccezionale il traguardo, se si pensa che in Bardonecchia è tra i pochi sopravvissuti dei grandi alberghi. Con il suo stile Liberty la struttura ha resistito alla seconda guerra mondiale, al mutamento dei gusti vacanzieri e alle alterne crisi economiche.
«Noi resistiamo – ha sottolineato con orgoglio Romano –. Nel nostro albergo offriamo un vecchio modo di trascorrere le vacanze ma evidentemente piace, se siamo ancora qui».
Immerso nella piccola pineta scampata alla speculazione edilizia, l’hotel, con le sue 52 camere, conserva quell’atmosfera di antico e di pace che tanto incantò Mario Soldati in quell’estate in cui girò il suo film “Fuga dalla Francia”.
Romano è riuscito comunque a coniugare il gusto delle cose perdute con i tempi attuali, offrendo alla sua clientela tutto ciò che una struttura a quattro stelle richiede. L’albergatore appartiene a quella numerosa famiglia che contribuì a creare la storia di Bardonecchia. I suoi bisnonni, provenienti dall’astigiano, giunsero in città all’epoca della costruzione del tunnel ferroviario del Frejus per rifornire di vino le mense degli operai. In seguito i nonni costruirono un albergo in via Medail che prese il nome di Splendid, denominazione rimasta ancora nell’attuale. L’altro ramo dei Bosticco costruì gli impianti sciistici, che nel corso degli anni si sono ampliati realizzando gli odierni tre comprensori.
Circondato da molti amici, giunti anche da alcune località della Francia, come la nordica Lille e la centrale Lyon, Romano Bosticco ha ricordato quando un giorno del 1943, all’età di sei anni, arrivando da scuola il papà gli intimò di nascondersi perché l’albergo era stato occupato dai tedeschi: «Un brutto momento, ce l’avevano distrutto quasi tutto, ma grazie alla prudenza di mio padre salvammo 6.000 bottiglie di vino che erano state murate in cantina!».
La festa di gala per i 75 anni dell’Hotel “des Geneys Splendid” 1936-2011. [foto: P.Montanaro]
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L’albergo ebbe anche dei momenti felici, di grande splendore, con la presenza assidua del Principe Umberto di Savoia, i due grandi del ciclismo Gino Bartali e Fausto Coppi, attori come Ugo Tognazzi e Raf Vallone, pittori come Felice Casorati e Riccardo Chicco, il disegnatore degli innamorati Raymond Peynet e, come già accennato, lo scrittore Mario Soldati che soggiornò un’intera estate.
Romano, da trentasei anni alla guida dell’albergo e da anni presidente degli albergatori, ha al suo attivo anche la realizzazione della mitica discoteca “La Mandia”, che negli anni 50/60 costituì uno dei locali notturni più gettonati e alla moda.
Luisa Maletto
* * *
«Era l’anno 1850 quando Giovanni Bosticco venne a Bardonecchia in occasione della costruzione del traforo ferroviario del Frejus, come fornitore di vino astigiano per le maestranze e gli operai impiegati sul cantiere – ricorda Romano –. All’inizio il vino arrivava a Bardonecchia sul dorso dei muli, poi Giovanni decise di creare un deposito permanente che poi via via diventò una locanda ed in seguito albergo. Suo figlio Michele per ottenere il miglior vino lo pagava in Marenghi d’oro. A traforo ultimato si installò a Modane, dove aprì un’osteria e poi l’Albergo du Nord». Con l’avvento della dittatura fascista gli italiani all’estero furono richiamati in Italia. La famiglia Bosticco si insediò nuovamente a Bardonecchia, dove aprì l’albergo Colomion Aquila Nera.
In seguito ad un incendio che distrusse interamente l’albergo, Michele costruì in via Medail l’albergo Splendid.
«Alla morte di Michele la moglie Teresa sviluppò l’attività – continua Bosticco –: il turismo invernale si stava sviluppando». Passiamo quindi agli anni Trenta, quando Natale Bosticco torna dall’America.
«Dopo essersi sposato costruì un albergo nella pineta di Bardonecchia – spiega Romano –, il luogo era chiamato Genei, pieno di rovi, ginepri e larici bellissimi. Il terreno fu acquistato da Michele alla storica famiglia di Bardonecchia Agnes des Geneys».
Nel 1936 furono terminati i lavori della costruzione dell’albergo, che venne chiamato “des Geneys Splendid”: «L’anno dopo nacqui io – aggiunge Romano –. Mio padre si chiamava Natale e mia mamma Margherita Martini».
Una locandina d’epoca dell’hotel.
[foto: collezione R. Bosticco]
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Durante la Seconda Guerra Mondiale, ai clienti si sostituirono le truppe tedesche.
«La storia simescola ai ricordi – racconta Bosticco –. Nel 1944 trovai inmontagna due soldati americani caduti con l’aereo, lo dissi a mio padre, che li nascose in soffitta, proprio sopra ai soldati tedeschi che dormivano nelle camere. Dopo averli curati riesco a farli fuggire. Il generale Eisenhower ci mandò successivamente una solenne lettera di ringraziamento».
Nel 1945 i nazisti vanno via dall’albergo lasciandosi dietro una bomba ad orologeria, che il piccolo Romano trova e porta dal padre: «Terrorizzato, mio papà la lanciò da un balcone salvando l’albergo, comunque molto danneggiato dalla lunga occupazione».
Negli anni ’50 l’hotel si rinnova, ospitando clientela da tutta Europa.
«Negli anni ’70 il des Geneys Splendid passa nelle nostre mani – raccontano Romano e la moglie Anne Marie –, e da lì continuiamo a gestirlo fino ad oggi con la stessa passione di allora».
Fabio Tanzilli

Premiato l’Hotel Sommeiller
TRA i duecento imprenditori piemontesi di attività ultracentenarie, premiate dalla Confcommercio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, mercoledì 4 maggio 2011, al teatro Carignano di Torino, c’era anche Augusta Amprimo, titolare dello storico Hotel Sommeiller, in direzione dell’ingresso del tunnel ferroviario del Frejus. Fu proprio la costruzione di questo tunnel ad attirare a Bardonecchia il bisnonno di Augusta, Mauro Amprimo, come minatore nella galleria. Terminati i lavori, quindi dopo il 1871, decise di aprire una bottega da barbiere, che in poco tempo trasformò in locanda. Era il 1884, quando nacque il piccolo albergo. Da allora le generazioni si susseguirono fino a giungere ad Augusta.
«È stata per me una vera sorpresa, l’invito a presentarmi al teatro Carignano. Mi ha riempito di orgoglio», ha commentato entusiasta l’albergatrice. «Quando ho ascoltato le parole di Maria Luisa Coppa, presidente dell’Ascom di Torino... “il premio è dovuto alla vitalità che anima un settore cresciuto spesso attraverso sfide portate avanti nel tempo da interi nuclei familiari, di generazione in generazione, contando poco sugli aiuti esterni e molto sul gioco di squadra fatto di tempi senza orari e di sacrifici senza risparmio...”, mi sono sentita protagonista del mio piccolo mondo».
In sostanza, per Augusta Amprimo, una vita trascorsa tra reception, cucina e camere, dapprima insieme ai genitori (il papà è stato anche Sindaco di Bardonecchia), poi con marito e figlie ed ora con i nipoti. «Mentre mi consegnavano l’attestato – ha proseguito Augusta –, scorrevano nella mia mente tutte le vecchie immagini dell’albergo e i racconti dei miei avi, alcuni tristi come quelli della guerra, quando l’albergo fu requisito dai tedeschi, altri gioiosi come i soggiorni dei “vip” e le feste di Capodanno e di Carnevale che una volta erano molto sentite».
Nel corso dei 127 anni l’albergo è sempre stato curato, a passo con i tempi.
Ha subito, perciò, diverse trasformazioni: sorto con un solo piano, oggi ne ha tre, l’ultimo restauro risale al 2005.
Il Presidente della Confcommercio Viale premia Augustina Amprimo Portulano.
Alle sue spalle, la Presidente Ascom di Torino. [foto: collezione A. Amprimo]
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Nell’evidenziare come l’albergo sia stato sempre considerato un tesoro di famiglia, Augusta ha
aggiunto: «All’indomani del 25 aprile 1945, quando i tedeschi abbandonarono il nostro albergo, trasformato in quartier generale, mia mamma, una donna molto energica, salvò stoviglie e arredi di valore dal furto che stavano compiendo. Era incinta di me, all’ottavo mese di gravidanza. Disse allora ai soldati se non si vergognavano a rubare tutto quel patrimonio, messo assieme con tanti sacrifici. I tedeschi in tono sprezzante le risposero che, se era in grado di scaricarselo da sola, loro avrebbero guardato compiaciuti. E la mamma non aspettò altro: lo scaricò tutto!».
L’albergo, nel corso dei decenni, ospitò illustri personaggi, come il Re Umberto I, Giovanni Giolitti, Walter Bonatti, Fabrizio De Andrè, il senatore Federico Marconcini e molti altri che al loro passaggio lasciarono foto e autografi, tutti ben custoditi dall’albergatrice.
Luisa Maletto

L’età delle belle e lunghe “scarpinate” tra le montagne rocciose ed innevate di questa cerchia alpina e di
quelle, forse più impegnative, al di là del conf ine, è, purtroppo passata!! Allora, nelle ore di riposo e non solo,
il pensiero accarezza quei ricordi, rivive le vere amicizie nello sfondo di un Creato tanto splendido che il Buon
Dio ha voluto offrire a noi poveri mortali. Riaff iorano così i volti di chi ti seguiva nelle escursioni più impegnative
ed in particolare degli Amici a cui la passione della montagna ha chiesto il sacrif icio della vita.
Con questi pensieri vorrei chiedere di ospitare sul Bollettino parrocchiale un paio di “tessere” da inserire
in quel mosaico religioso e sociale e pubblicare quello che per me è una stupenda preghiera al nostro Creatore
e alla Madonna: “Signore delle cime”.
Ed ancora, per coloro che si addentrano nel verde misterioso dei boschi, il sonetto “La guida”, che un mio
carissimo Amico, passi facendo, bisbigliava, come in preghiera, nelle nostre passeggiate.
Aldo Morelli