01/11/16

Bardonecchia e la Grande Guerra (2015)


Cartolina dell’inaugurazione del Viale della Rimembranza - Bardonecchia 20-8-1926. (Archivio Carlo Lantelme)
Il Viale della Rimembranza è stato per i nostri nonni il luogo del ricordo dei compagni che non tornarono. Oggi che è tutto cambiato e che il paesaggio di questa cartolina del 1926 è quasi irriconoscibile, oggi a distanza di 100 anni vogliamo ricordare.
I nonni portavano i nipoti al monumento dei caduti e tenendoli stretti per mano raccontavano: lì, davanti a quelle lapidi la loro mano stringeva forte la manina del nipotino, l’emozione saliva e il corpo si irrigidiva in un “attenti” di rispettoso ossequio per i compagni morti.
Che cosa vedevano i nostri nonni davanti a quel monumento? Che cosa sentivano nel loro cuore? Sentivano ancora la guerra, la paura della morte, il sibilo delle granate, vedevano le trincee, il filo spinato, sentivano l’angoscia dell’assalto. Sentivano che era stato tutto inutile perché un’altra terribile guerra, dopo vent’anni, aveva nuovamente sconvolto l’Europa. Ma i nostri nonni volevano che non si perdesse la memoria di quell’immane sacrificio, volevano che i nipoti imparassero per raccontare ancora ai loro figli.
E noi, nipoti e figli, fedeli alla loro memoria, ricordiamo su queste pagine la loro storia.
Anche quest’anno le pagine del Bollettino ci riportano indietro nel tempo e raccolgono le vite dei bardonecchiesi che hanno combattuto nella Grande Guerra e che sono morti per la Patria o che sono tornati. Scavando nei ricordi di tante famiglie sono emersi preziosi documenti sepolti nei cassetti e forse dimenticati: tutti coloro che hanno partecipato a questo lavoro hanno condiviso con me la ricostruzione della vita dei loro cari, felici che potesse tornare alla luce una memoria lontana.

Il mio grazie sincero a tutte le famiglie che si sono unite a me in questa ricerca.

Bardonecchia e la Grande Guerra
di Antonella Filippi

LA STORIA DI DUE ALPINI UNITI NELLA MORTE
Dal Diario storico del Battaglione Exilles, 19151

Il Diario storico del Battaglione Exilles2 ci fornisce giorno per giorno, in poche scarne righe, quello che succedeva al fronte: l’avvicendarsi delle Compagnie in prima linea, i combattimenti, i morti e i feriti e subito dopo, con gelida annotazione, il tempo atmosferico.
I giorni dall’8 al 10 settembre 1915 ci interessano da vicino perché sono gli ultimi per due nostri giovani alpini: Luigi Allizond ed Emilio Magaris. Il Battaglione Exilles, nei primi giorni di settembre 1915, occupò la linea fronteggiante la collina di Santa Maria che insieme all’altura di Santa Lucia costituiva la famosa testa di ponte di Tolmino, l’invincibile roccaforte austro-ungarica. Ripetuti attacchi vennero scagliati dai nostri soldati per impossessarsi di queste colline dove si consumò tanto eroismo e tanto inutile sangue. Il 9 settembre l’Exilles, durante un poderoso assalto durato quattro giorni, riuscì temporaneamente ad occupare un tratto di trincea posto appena sotto la cima del Santa Maria. Gli alpini non poterono però consolidare la posizione e furono costretti a ritirarsi sulle posizioni di partenza. Tra i morti del 10 settembre c’erano i due alpini di Bardonecchia che furono sepolti insieme a Volzana. Leggiamo ora la loro storia.
1 Le copie delle pagine del Diario storico del Battaglione Exilles sono state gentilmente fornite da Pierluigi Scolè.
2 Ufficio storico dello Stato Maggiore Esercito in Roma, Diari Storici 1ª Guerra mondiale, posizione 1919 a.

8 settembre - Situazione invariata.
Si procede nei lavori di approccio. Avviene il cambio alle trincee avanzate. Abbiamo 31ª e 35ª in prima linea - 32ª 84ª e 5ª Sez.ne Mitrag. in rincalzo. Nella notte si procede al taglio di reticolati.
Perdite subite: NN. Tempo variabile.
9 settembre - Dalle 9 alle dodici e trenta bombardamento delle posizioni nemiche. Alle 12,30 si inizia l ’attacco alle trincee nemiche. La 33ª Compagnia occupa un tratto di trincea nemica che però non può mantenere. La 31ª avanza di un centinaio di metri dalle trincee precedentemente occupate. Il nemico fa uso di gas asDssiante. Perdite subite: morti 2 e 17 feriti di truppa.Tempo variabile.
10 settembre - Prosegue l ’azione per il raggiungimento dell’obbiettivo del cucuzzolo di Santa Maria. Alle ore 19 si rinnova l’attacco alle trincee nemiche contro le quali è stato diretto preventivamente tiro d’artiglieria. La 31ª Compagnia raggiunge cocuzzoletto roccioso antistante alle trincee nemiche ma non vi si può mantenere perché soggetto ad un intenso fuoco di artiglieria nemica di grosso calibro –
Cattura due prigionieri. La 33ª tenta ripetutamente l’attacco di un ridottino nemico senza riuscirvi. Riesce però ad affermarsi su un plotone sul Danco di esso. Perdite subite: 4 morti - 14 feriti - 10 dispersi di truppa. Tempo bello.
Il capitano comandante del Battaglione: P. Rosso






LUIGI ALLIZOND
Nell’atto di morte di Luigi Allizond si legge: «L’anno millenovecento quindici il dieci del mese di Settembre nel paese di Volzana, mancava ai vivi alle ore venti, all’età d’anni ventisei il Soldato Allizond Luigi Nº 14271/20 di matricola nativo di Millaures provincia di Torino figlio di Celestino e di Vallory Fiorentina.
Celibe, morto in seguito a ferita d’arma da fuoco al capo sepolto a Volzana». Fine di una giovane vita.
La fotografia ritrae Luigi ventenne all’epoca del servizio militare che iniziò nell’ottobre del 1908 nel 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles. Finì la ferma di due anni il 1º settembre 1910, partì per la Francia e andò a Marsiglia a lavorare come facevano tanti giovani delle nostre montagne. Il 1º giugno del 1915 fu nuovamente chiamato alle armi e questa volta era per la guerra: inviato al fronte sull’Isonzo, probabilmente prese parte, con il Battaglione Exilles, alla conquista del Montenero del 16 giugno. Era nelle trincee di fronte al Santa Maria nei giorni dell’attacco e morì nel furioso quanto inutile combattimento del 10 settembre 1915. Luigi aveva 26 anni e dalla sua giovinezza aveva avuto poche gioie. Due anni di servizio militare e poi il duro lavoro come immigrato in Francia: forse sperava di farsi una famiglia con quei pochi soldi guadagnati, ma la guerra fermò ogni speranza e se lo portò via per sempre.

A Le Gleise, dove era nato il 31 maggio 1888, rimasero ad attenderlo i genitori e i fratelli.
I coniugi Allizond, Celestino e Fiorentina, avevano avuto nove figli e alla disgrazia di aver perso Luigi in guerra si aggiunse il lutto per due figlie femmine morte di spagnola.
La famiglia Allizond: Luigi terzo da destra in piedi

FONTI: Archivio di Stato di Torino, foglio matricolare. – Museo Centrale del Risorgimento: atto di nascita del Comune di Millaures; atto di morte del Ministero della guerra; fotograEa di Allizond Luigi. – FotograEa della famiglia Allizond da: Augusta Gleise Bellet (a cura di), Ënviran dlä Gleizë ’d MiaràuraTipograEa Edi.tur di Oulx, 2004, p. 41. – Ufficio storico dello Stato Maggiore Esercito in Roma, Diari Storici 1ª Guerra mondiale, posizione 1919 a.





EMILIO MAGARIS
(MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE)
La giovane vita di Emilio Magaris, stroncata a soli vent’anni sul fronte dell’Isonzo, non era stata segnata
dalla fortuna fin dalla sua nascita. Emilio era nato il 29 ottobre 1894 nell’Opera Pia della Maternità3 di Torino da madre nubile che per la sua indigenza era stata accolta nell’ospedale per partorire e che per le sue misere condizioni non aveva potuto tenersi il bambino. La madre Giuseppina faceva la cameriera ed il padre era «uomo nubile non parente né affine di essa», come leggiamo nell’atto di nascita del Comune di Torino. Il piccolo fu registrato all’Opera Pia con il numero d’ordine 16.608.
Come per tutti i neonati abbandonati anche per Emilio fu necessario trovare al più presto una balia da latte. Il problema dell’allattamento era infatti molto serio per i neonati dei brefotrofi: l’allattamento artificiale non copriva i bisogni dei piccoli, venivano usate farine lattee o si ricorreva al latte di mucca o di capra, sovente causa di malattie mortali, soprattutto dissenteria e gastroenterite4. Alcuni ospedali dell’infanzia avevano a disposizione nutrici che vivevano all’interno degli ospizi e che allattavano i neonati fino al loro svezzamento; ma questa possibilità era rara e bisognava ricorrere alle balie di campagna. Le donne che
si offrivano per il baliatico sceglievano liberamente il bambino ed avevano in cambio la “mesata”, un contributo mensile che durava per tutto il periodo dello svezzamento. Insieme al piccolo alle balie veniva consegnato l’“in fascio”, un corredino che negli ospedali di Torino consisteva «in una culla, due cuffiette, quattro pezze di tela, due fasce, una copertina di lana e due camicini»5.
Il 2 novembre 1894 il nostro Emilio, a pochi giorni dalla nascita, venne affidato ad una donna di Caluso che lo svezzò: Maria Monti, moglie di Francesco Monti. La famiglia lo tenne con sé fino al primo agosto del 1896. Bisognò ricollocare il piccolo Emilio presso un’altra famiglia di “allevatori campagnoli”: all’età di quasi due anni, il 6 agosto 1896, il bambino fu preso dalla famiglia Glanda di Burolo, in provincia di Ivrea, e si occupò di lui la signora Maria moglie di Domenico Glanda. Ma dopo tre mesi (non sappiamo per quale motivo) lo riportarono all’ospedale e il bambino visse per sei mesi senza alcun affetto, nel brefotrofio.

3 Per volere di Vittorio Amedeo II nel 1728 era nata all’interno del San Giovanni Battista l’Opera delle partorienti che nel 1801 venne separata dall’ospedale e trasferita nell’ex convento di SanMichele, in via Giolitti angolo Piazza Cavour; prese il nome di Opera Pia della Maternità e le fu affidata l’amministrazione dell’Opera dei Trovatelli. Quest’ultima nel 1869 venne resa autonoma e trasferita nel 1871 in via Piave 14.
4 Mariagrazia Gorni, Laura Pellegrini, Un problema di storia sociale. L’infanzia abbandonata in Italia nel secolo XIXFirenze, La Nuova Italia, 1974, p. 20.
5 Op. cit., p. 28.
Istituto Provinciale Maternità e Infanzia, e archivi aggregati: estratto dei Registri di verbale di collocamento d’infante, gennaio 1901-193
Le famiglie di “allevatori”, che allevavano un bambino già cresciuto ed entrato nella categoria di “fanciullo da pane”, prendevano un salario mensile inferiore a quello delle balie, che diminuiva mano a mano che il bambino cresceva6: erano pochi soldi che aiutavano la poverissima economia delle famiglie contadine.
Il 20 giugno 1897 il nostro Emilio fu affidato ad una famiglia di San Giusto Canavese, alle cure della signora Domenica moglie di Domenico Boggio. Qui rimase per cinque anni e il 12 luglio 1902, quando ormai era un ragazzino di quasi 8 anni, ritornò a Torino. Forse gli avevano dato un minimo di istruzione ma certamente aveva incominciato anche lui, come tutti i bambini di quell’epoca, a rendersi utile nei lavori domestici o nei campi 7.
Nella sua sfortunata infanzia aveva già conosciuto tre “mamme”. Il 20 luglio 1902 arrivarono da Rochemolles i coniugi Angelica e Desiderato Guillaume che se lo portarono sulle montagne. Era finalmente entrato in una famiglia che si sarebbe presa definitivamente cura di lui: infatti il 27 maggio 1906, all’età di 11 anni, Emilio fu “collocato” presso i Guillaume8. Il 28 maggio 1906 fu «spedita la quietanza di Collocamento nº 138 di £ 50 a capo di Guillaume Desiderato da Rochemolles»9. Non sarà stato facile per lui ambientarsi ed imparare il dialetto di Rochemolles, lui che certamente parlava solo il piemontese e forse qualche parola d’italiano.

6 «Una volta svezzati, i bambini nella maggior parte dei casi rimanevano presso le famiglie che fino allora li avevano ospitati, e passavano nella categoria dei “fanciulli da pane”. Gli “allevatori” – detti anche “tenutari”, “custodi” o “concessionari” – si impegnavano a trattare come propri figli i trovatelli avuti in consegna, e a curarne l’educazione avviandoli ad un’ “arte o mestiere” che potesse garantir loro un futuro indipendente». Op. cit., p. 28.
7 I trovatelli «venivano accolti nelle famiglie quasi unicamente per l’aiuto economico che potevano fruttare con i salari corrisposti dagli istituti e con il loro lavoro; perciò raramente potevano studiare, dato che fin dalla più tenera età dovevano rendersi utili ai tenutari. Tuttavia i direttori di una buona parte dei brefotrofi del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, dell’Emilia e delle Marche, per migliorare l’educazione degli esposti, stanziarono dei fondi speciali destinati all’istruzione.
Questi fondi erano suddivisi in “premi”, variabili dalle 20 alle 100 lire, distribuiti agli allevatori al compimento del dodicesimo o del quindicesimo anno d’età del bambino loro affidato, purché questi dimostrasse, con un piccolo esame,
di saper leggere e scrivere correttamente, oppure avesse la licenza elementare». Op. cit., pp. 32 e 33.
8 All’età di dieci anni i trovatelli dovevano essere definitivamente collocati e all’atto dell’affidamento la famiglia riceveva un assegno di 50 lire. Il regolamento del 1886 raccomandava che i nuovi genitori dovevano «tenerlo, custodirlo, alimentarlo ed educarlo sino all’età di anni ventuno compiuti, in casa propria; applicarlo ai lavori campestri, ovvero fargli imparare una professione o arte». Cesare Bellocchio Brambilla, Nascere senza venire alla luce. Storia dell’Istituto per l’infanzia abbandonata della Provincia di Torino 1867-1981, Franco Angeli, Milano, 2010, p.74.
9 Archivio di Stato di Torino, Inventario n. 260 - Istituti di Assistenza e Beneficenza - Istituto Provinciale Maternità e Infanzia e archivi aggregati, Registro 360.

Rimase a Rochemolles fino all’entrata in guerra dell’Italia e non vi fece più ritorno. Partì per la guerra nei giorni della mobilitazione e giunse al fronte sull’Isonzo il 23 maggio 1915. Emilio era soldato nel 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles, 33ª Compagnia; era con la sua Compagnia sul Montenero nella conquista della vetta del giugno del 191510. Ma la sua battaglia con la vita doveva finire molto presto. Il 10 settembre 1915 moriva nella disperata conquista della collina di Santa Maria, nella zona della testa di ponte di Tolmino. Non aveva che vent’anni, e se ne andò dando alla Patria un atto di coraggio che gli valse la medaglia di bronzo al valor militare: «Durante l’assalto alle trincee nemiche, dava bell’esempio di coraggio, combattendo a corpo a corpo con l’avversario, finché cadeva mortalmente ferito – Collina di Santa Maria di Tolmino, 9 settembre 1915»11.

FONTI: Comune di Torino, Estratto dal registro degli atti di nascita nº 699.
– Museo Centrale del Risorgimento, Documenti dello stato civile relativi al caduto della grande guerra.
– Archivio di Stato di Torino, Inventario n. 260
- Istituti di Assistenza e Bene Ecenza - Istituto Provinciale Maternità e Infanzia, e archivi aggregati: registro 360 (Stati nominativi degli infanti ammessi a baliatico, gennaio 1894-luglio 1895); registro 378 (Registri di verbale di collocamento d’infante, gennaio 1901-1933).
– Archivio di Stato di Torino, foglio matricolare.
– Cesare Bellocchio Brambilla, Nascere senza venire alla luce. Storia dell’Istituto per l’infanzia abbandonata della Provincia di Torino 1867-1981, Franco Angeli, Milano 2010.
– Mariagrazia Gorni, Laura Pellegrini, Un problema di storia sociale. L’infanzia abbandonata in Italia nel secolo XIX,La Nuova Italia, Firenze 1974.
– Pierluigi Scolè, 16 giugno 1915. Gli Alpini alla conquista di Monte Nero, Il Melograno Editore, Bollate (Mi) 2010.
10 La 33ª Compagnia nella notte del 15 giugno 1915 rimase sulle linee di partenza di Kozliak, prospiciente il Monte Nero a quota 1602, sede del comando del Battaglione Exilles. Il Monte Nero fu conquistato il 16 giugno 1915 dalle Compagnie 84ª e 31ª del Battaglione Exilles e da tutte le Compagnie del Battaglione Susa.
11 B.U. 1916, d. 60, p. 3197.

FRANCESCO GIOVANNI GOLZIO

Francesco Golzio aveva appena compiuto 19 anni quando morì per una broncopolmonite bilaterale che aveva contratto sul fronte: era il 10 gennaio 1919, la guerra era finita da alcuni mesi ma la gravità delle sue condizioni non gli lasciarono scampo.
Francesco, nato il 21 dicembre 1899, rientrò per una manciata di giorni nella leva dei “ragazzi del ’99”: era stato chiamato alle armi nel giugno del 1917 quando aveva appena 18 anni. La mamma era vedova e in famiglia si sperava che Francesco, unico figlio maschio, potesse essere esentato dal servizio militare. E invece la guerra aveva sempre più bisogno di uomini e anche i ragazzi furono arruolati. Partì con il 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles. Giunse sul fronte dell’Adamello il 17 novembre del 1917 in forza nel 4º Reggimento alpini, Battaglione Val Baltea. Gli alpini del Val Baltea il 15 giugno 1917 avevano compiuto un’azione memorabile, la conquista del Corno Cavento, nell’Adamello.
Leggiamo dal Bollettino di Guerra N. 753 (16 giugno 1917, ore 16): «Ad oriente del massiccio dell’Adamello (Trentino occidentale), riparti del Battaglione alpini Val Baltea e di skiatori, superando grandi difficoltà di terreno ed accanita resistenza avversaria, attaccarono la forte posizione di Corno Cavento (3400 m). La posizione venne espugnata. Caddero in nostra mano i resti del presidio nemico, due cannoni da 75, una bombarda, 4 mitragliatrici e grossi depositi di viveri e munizioni. Cadorna».
Le stringate righe del Cadorna non rendono l’idea di che cosa fu per i nostri alpini la conquista di questo monte conteso da entrambi gli schieramenti. Il 30 aprile 1916 gli austriaci avevano occupato il Corno Cavento, a 3.400 mt di altezza, e lo avevano fortificato costruendo a colpi di mina una galleria12 sotto la cima che divenne un fortino con feritoie per mitragliatrici e cannoni rivolte verso il Passo di Cavento e la Vedretta della Lobbia occupati dalle truppe italiane.
Il 15 giugno del 1917, dopo un violentissimo bombardamento, circa 1.500 alpini sferrarono l’attacco contro il presidio austriaco e riuscirono a conquistarlo. La cima del Corno di Cavento venne trasformata in una roccaforte con la costruzione di sentieri attrezzati, una teleferica e più di una decina di baracche. Il 15 giugno del 1918, dopo lo scavo nel ghiaccio di una galleria che arrivava fin sotto le prime linee italiane, gli austriaci rioccuparono il Corno di Cavento e lo mantennero fino al 19 luglio 1918 quando gli italiani lo riconquistarono e lo mantennero fino alla fine del conflitto.
Il nostro Francesco giunse sull’Adamello il 17 novembre 1917 e quindi possiamo immaginare che abbia preso parte alle azioni dei nostri alpini.

12 La galleria è rimasta per 90 anni coperta di ghiaccio e di neve e solo nell’estate 2013, per le alte temperature, i ghiacci si sono sciolti ed è stato possibile entrare di nuovo nella galleria. Tutto è rimasto come allora, strutture e reperti di ogni tipo sono stati trovati esattamente come furono lasciati nel momento della discesa a valle degli ultimi soldati italiani che occupavano le fortificazioni. https://www.youtube.com/watch?v=wngO6Z8XsZk



Francesco era riuscito a salvarsi dai colpi nemici ma lo uccise una broncopolmonite che si era preso rimanendo per una notte sulla teleferica bloccata per un guasto, mentre portava materiale sulla cima del monte Cavento. Il gelo di quelle altezze gli fu fatale.
Il caporale Francesco Golzio fu sepolto in un primo tempo nel cimitero di Merano e poi nel Sacrario Militare di Castel Dante, vicino a Rovereto, dove ancora oggi riposa. Rimasero a piangere quel ragazzo che non era più tornato la madre  iuseppina e la sorella Maria Teresa, mamma di Don Gian Paolo Di Pascale.
Giuseppina Pollovio, nativa di Passerano d’Asti, era la sorella di quel Giovanni Pollovio che aveva preso la gestione del Caffè Medail fin dal 1906, facendone il luogo di ritrovo più elegante e moderno del paese. Giuseppina aveva di certo raggiunto il fratello per collaborare con lui nella fiorente attività. A Bardonecchia
conobbe Paolo Golzio e dal loro matrimonio nacquero due figli, Francesco nel 1899 e Maria Teresa nel 1903.
Alla tragica morte di Francesco, la sorella Maria Teresa aveva solo 16 anni. Nel 1931 sposò Achille Di Pascale, nativo della provincia di Caserta, che era militare a Bardonecchia, nel 1932 nacque il primogenito Gian Paolo.
Tra i pochissimi ricordi di Francesco che Don Paolo ha ereditato dalla mamma ci sono il distintivo di alpino e una cartolina che scrisse alla sorellina dal fronte; in queste poche righe leggiamo tutta la giovinezza di un ragazzo diciottenne: c’è la gioia di vivere, di scherzare e di essere allegro ad ogni costo:
«19-9-18. Carissima Maria, si vede che mantieni proprio bene la promessa di scrivermi molto sovente. Non avrai certo da lagnarti dime, perché mi pare che giornalmente vi scriva!
Perché dunque tu serbi così a lungo il tuo silenzio. Scrivimi presto e a lungo che attendo con ansia. Le mie notizie sempre ottime. E voi? Saluti a tutti i parenti, un mondo di baci alla cara mamma ed un abbraccio forte forte tuo Giovanni».

FONTI: Archivio di Stato di Torino, foglio matricolare di Golzio Francesco. – Testimonianza e documentazione di Don Gian Paolo Di Pascale.

CELESTINO GUIFFREY (MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE)
Celestino Guiffrey, soldato del 3º Reggimento alpini Battaglione Exilles, partecipò alla battaglia del Montenero del 16 giugno 1915 e per la ferita e il coraggio dimostrato fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare.
Celestino, nato il 30 giugno 1894, era figlio di Mario Guiffrey e di Maria Teresa Bompard. Era stato arruolato nella 1ª categoria della classe 1894 e chiamato alle armi il 7 settembre 1914 nel 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles. Il 23 maggio 1915 giunse al fronte e combatté nell’attacco del Monte Nero, aggregato all’84ª Compagnia come esploratore di Battaglione. Fu ferito al braccio sinistro e per questo lasciò temporaneamente il fronte per essere ricoverato all’ospedale di Vigevano. Rientrò in zona di guerra il 20 maggio 1916 presso il Battaglione Val Dora. Il 30 dicembre 1916 lasciò gli alpini per passare al genio, nella sezione telefonica e poi nella 121ª Compagnia telegrafisti. La ferita al braccio gli fu probabilmente d’aiuto per non partecipare più ad azioni dirette di guerra.
Nel dicembre 1918 tornò a casa e fu congedato definitivamente nel settembre 1919.
Celestino aveva partecipato con onore alla battaglia del Monte Nero, il primo grande successo dei nostri alpini.

«Giù il cappello davanti agli alpini; questo è stato un colpo da maestro», scrisse una giornalista austriaca, cronista di guerra, a proposito della nostra vittoria.
Nella notte piovigginosa tra il 15 ed il 16 giugno del 1915, i Battaglioni alpini Susa ed Exilles assaltarono la vetta del Monte Nero ritenuta imprendibile dagli austriaci sia per le difficoltà della montagna, sia per le postazioni difensive che avevano creato. Gli alpini dovevano arrampicarsi, al buio e in assoluto silenzio per prendere di sorpresa il nemico: vietato tossire, chiamarsi e smuovere sassi.

Copertina de “La Domenica del Corriere”: «Una buona cattura sul Monte Nero. Il comando di un Battaglione austriaco scoperto in una caverna e fatto prigioniero». Disegno di A. Beltrame.


Il piano prevedeva l’attacco sui due versanti della montagna: gli alpini del Battaglione Susa iniziarono la salita dalla cresta nord con l’intento di conquistare il costone occidentale mentre due Compagnie dell’Exilles, l’84ª e la 31ª, attaccarono il versante meridionale, più ripido e scoperto, puntando direttamente alla vetta. Approfittando del buio e della nebbia, dopo tre ore di scalata gli uomini dell’Exilles giunsero in prossimità dei primi trinceramenti austriaci e, udito a distanza l’inizio dello scontro di quelli del Susa, partirono all’assalto della cima che conquistarono dopo un’aspra lotta corpo a corpo.
Celestino raccontava al figlio Gustavo di quella notte, nella quale lui e altri 3 o 4 compagni riuscirono a prendere di sorpresa una postazione nemica.
Una bella rappresentazione della conquista del Monte Nero: i due Battaglioni Exilles e Susa salgono sul monte e catturano gli austriaci [Ex voto G.R. 6 giugno 1915 Monte Nero - Perotto Domenico Caporale IIIº alpini].
(Per gentile concessione del Santuario della Consolata, Torino)
Il coraggio dimostrato e la ferita gli valsero la medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: «Nell’attacco di sorpresa di Monte Nero, sotto vivo fuoco, sprezzante del pericolo, si slanciò sulle trincee nemiche, scacciandone i difensori e rimanendo ferito – Monte Nero 16 giugno 1915».

FONTI: Archivio di Stato Torino, foglio matricolare. – Comune Bardonecchia, atto di nascita. – Parrocchia Sant’Ippolito, atto di battesimo. – Pierluigi Scolè, 16 giugno 1915. Gli Alpini alla conquista di Monte Nero, Il Melograno Editore, Bollate (Mi) 2010. – Lo Scarpone Valsusino, luglio 2015. – Testimonianza di Gustavo Guiffrey.

ERNESTO LANTELME
Quando nel 1923 Ernesto Lantelme tornò dalla guerra gravemente mutilato, Bardonecchia lo accolse con tutti gli onori. Per quel figlio che aveva perso sul fronte gli occhi e le mani, dilaniate dallo scoppio di una granata, il paese aveva organizzato una grande gara di solidarietà per raccogliere fondi e offrigli una medaglia d’oro. Al Teatro Sofilba (nel cortile del Caffè Medail) domenica 19 agosto venne rappresentato  il dramma in quattro atti di Gerolamo Rovetta “Romanticismo”.
Nel manifesto tricolore che pubblicizzava l’evento leggiamo: «Le Associazioni tutte sono invitate ad intervenire con gagliardetto, e con esse il pubblico, per dare solenne manifestazione di simpatia al nostro Eroe, per porgere il doveroso solenne tributo di riconoscenza a chi tutto ha donato a pro della Patria».
Tra i ricordi che il figlio Carlo conserva con religiosa cura in una valigetta di pelle, ci sono due piccoli album con le firme dei partecipanti e con l’elenco dei reduci bardonecchiesi che al compagno d’armi scrissero nel frontespizio: «A Ernesto Lantelme che alla Patria pegno di rovente amore donò la forza del suo braccio la luce dei suoi occhi, al Corpo dilaniato allo Spirito intatto e superbo, i fratelli d’arme e di terra, ieri forti alla lotta come oggi tenaci al lavoro, offrono».
La notizia fu ricordata anche dalla Gazzetta del Popolo: «La cerimonia, che ha lasciato tanta commozione negli animi, si è svolta sul palcoscenico gremito di fiori, dove, dopo la fine dello spettacolo, presero posto il grande invalido e la sua signora, attorniati dalle autorità cittadine».
Ernesto, prima che la guerra gli sconvolgesse la vita, era un giovane contadino che conosceva solo il suo paese e la sua terra: era nato a Les Arnauds l’8 dicembre 1892, figlio di Giovanni e Rosalia Orcelet che avevano avuto 10 figli. La guerra lo portò via dalle sue montagne con la mobilitazione del 1915. Il 29 aprile partì con il Battaglione Exilles del 3º Reggimento Alpini: una bella foto lo ritrae orgoglioso nella divisa di alpino. Il 10 settembre 1916 giunse sul fronte nel settore dell’Ortigara, assegnato ad una Compagnia Mitragliatrici mod. 190713 che si trovava tra il monte Sbarbatel e il monte Zebio e tra le località di Campodimulo e il paese di Gallio14. Ernesto, che era un buon sciatore, era inviato sovente a Gallio a prendere gli ordini e la posta per i soldati.
Quindici chilometri fuori dalla guerra, e quando era notte e non poteva rientrare dormiva nella chiesa di Gallio.

13 Mitragliatrici Saint Etienne di costruzione francese.
14 La Compagnia di mitraglieri della quale faceva parte il Lantelme era probabilmente stata aggregata ad una delle Divisioni di fanteria che erano schierate nella zona del monte Zebio, prima fra tutte la famosissima Sassari.

Nel Natale del 1916 scrisse la sua ultima lettera ai genitori, due paginette semplici in cui è detto tutto: la nostalgia per la famiglia, la tristezza del Natale lontano da casa, il calore dell’affetto dei suoi in quel pacco natalizio con poche povere cose che gli riportavano i sapori di casa. E poi la guerra in quelle ultime righe, la guerra di cui non può parlare perché è proibito, ma di cui capiamo la tragedia in quell’urgenza di aggiungere: «Papà non farti cattivo sangue tanto è lo stesso».

«29.12.1916.
Carissimi genitori, vengo con gran piacere a farvi sapere delle mie nuove, avendo ricevuto il vostro pacco che mi avete inviato. Lo ricevetti quest’oggi, giorno della festa sono stato molto contentissimo di averlo ricevuto mi sembrava di avere ricevuto uno di voialtri di famiglia. Se avessi potuto trovarsi tutti assieme a pranzo che festa per voi tutti ma pazienza non si può forse ci troveremo più tardi. Fate coraggio, non fatevi cattivo sangue.
Trovai i salamini e le sardine e la cioccolata molto buono e buonissimo. Mi sono tirato su un bel pezzo per quel giorno. È soltanto il vino che un poco mal comodo, non se ne beve, ma pazienza.
La mangiare noi qua va benissimo, lo sapete? soltanto che fa molto freddo, pazienza.
Fate coraggio. Addio vostro figlio. Lantelme Ernesto
Non posso raccontarvi è proibito severamente15.
Tanti baci a Vittorio per me.
Papà non farti cattivo sangue tanto è lo stesso. Addio».

15 Fin dall’inizio della guerra vigeva una forte censura sulla corrispondenza da e per il fronte, regolata nel corso del conflitto da vari provvedimenti che dopo l’offensiva nemica della primavera del 1916 tesero anche a limitare i contatti dei soldati con i familiari causa del diffondersi al fronte delle idee pacifiste e socialiste che circolavano nel paese. I militari che descrivevano il duro impatto con la realtà della guerra potevano essere denunciati e processati; bastava narrare le proprie paure, denunciare la fame, la spietata disciplina a cui si era sottoposti per essere incriminati per diffusione di notizie capaci di produrre
turbamento. Lantelme, infatti, nella sua lettera dice chiaramente che è proibito parlare delle condizioni di vita al fronte e della guerra (vedi: Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000).

Queste poche righe sono tanto più commoventi in quanto furono le ultime che il giovane Ernesto scrisse:
dopo qualche mese fu vittima dell’esplosione che gli dilaniò il petto e le mani e gli bruciò gli occhi. Era il 5 giugno del 1917, Ernesto si trovava sul monte Sbarbatel quando lo scoppio di un petardo Thévenot fermò la sua giovinezza. Aveva 24 anni, sano e robusto, con la vita davanti.
Ma Ernesto, che fu sempre un uomo pieno di vita fino alla sua vecchiaia, raccontava ai figli che ai suoi
compagni d’armi era andata peggio: qualche giorno dopo, il 10 giugno 1917, il monte Zebio, su cui era appostata la sua Compagnia, esplose accidentalmente per una mina italiana, portandosi via la vita di centinaia di compagni16.
Ernesto dopo l’ospedale di Verona, tra immani sofferenze, fu trasferito a Firenze: raccontava ai figli che
per suturargli le ferite sul petto e sulle braccia lo portavano a Viareggio e lo immergevano nel mare affinché l’acqua salata gli fermasse il pus e gli evitasse la cancrena. Ogni bagno nell’acqua salata era un dolore insopportabile che però alla fine lo guarì. Ma gli occhi e le mani erano perse per sempre.
Entrò nella Casa nazionale “Principe Simone Abamélek Lazarew” per gli ultra-invalidi di guerra al Galluzzo di Firenze: in questo luogo poco alla volta riprese a vivere e con il suo carattere amabile e gioviale fece amicizia con tutti e si fece amare dai compagni che lo ricordarono per tutta la vita.

Ernesto Lantelme con la moglie Teresa.
Quando nel 1923 tornò a Bardonecchia era sposato con la contessa Ebe Benso, una crocerossina che si era presa cura di lui, lo aveva aiutato a superare il terribile trauma, una donna molto più anziana di lui, benestante e di nobile famiglia. Era con loro la governante Teresa Prospero, una giovane donna originaria del Veneto, che alla morte della contessa divenne la moglie di Lantelme, gli diede tre figli e gli fu accanto per tutta la vita con dedizione e amore. È grazie a lei che oggi esiste quella preziosa valigetta di pelle da cui escono i ricordi della vita di Ernesto Lantelme, raccolti con devozione e conservati come un tesoro dal figlio Carlo che li mostra con orgoglio.

16 Solo nella Brigata Catania si contarono quel giorno 120 morti. Bardonecchia, 1951:


Nel 1939 Ernesto Lantelme fu insignito della croce di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia da Sua Maestà il Re: fu il Federale in visita alla cittadina di confine a consegnare nel piazzale del Palazzo delle Feste l’onorificenza al Lantelme, come ricorda La Stampa del 14 agosto 1939: «Al cieco di guerra emutilato di entrambe le mani Ernesto Lantelme il Segretario Federale consegnava la croce di cavaliere alla presenza delle bimbe che seguivano la scena con reverente attenzione».
Oggi la medaglia d’oro che i bardonecchiesi gli offrirono nel 1923 non c’è più perché donata come oro alla Patria. Ma da quella valigetta escono altre medaglie, quelle di Cavaliere di Vittorio Veneto, le croci di guerra e poi escono le fotografie, i documenti, i ritagli di giornale, le cartoline degli amici di Firenze: ma esce soprattutto le figura di un uomo amato e rispettato la cui memoria continua, anche a distanza di decenni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1969.

FONTI:Archivio di Stato diTorino, foglio matricolare. – Documentazione e fotograEe del Eglio Carlo Lantelme. –Testimonianza di Carlo Lantelme.


FIRMINO LANTELME


Firmino Lantelme, soldato del 34º Reggimento
 fanteria. (Archivio fam. Lantelme)
Firmino Lantelme era l’ultimo dei dieci figli17 dei coniugi Lantelme, era nato il 25 settembre del 1899 e sembrava che per lui, data la sua giovane età, la guerra fosse lontana. Per la guerra era già partito il fratello maggiore Ernesto, che alla Patria nel giugno del 1917 aveva lasciato le mani e gli occhi. La tremenda disgrazia che aveva colpito la famiglia Lantelme era avvenuta da pochi mesi, il povero Ernesto stava combattendo con le poche forze rimastigli per sopravvivere alle ferite e alle mutilazioni, quando arrivò la chiamata alle armi per Firmino.
Possiamo immaginare la disperazione dei vecchi genitori: la mamma Rosalia, nata nel 1855 aveva all’epoca 62 anni, il padre Giovanni 63. Tanti per quei tempi in cui la vita si consumava in fretta piegata nel duro lavoro sui campi e sulle pietre delle montagne.
L’11 settembre 1917 arrivò la chiamata ma Firmino non c’era, era a Marsiglia; aveva raggiunto il cugino che gli aveva trovato un lavoro.

17 Gli altri tre fratelli maschi erano: Antonio Lantelme, nato il 13 maggio 1884, già riformato per malattia agli occhi, non andò in guerra perché impiegato nelle Pubbliche Amministrazioni Poste e Telegrafi; Giuseppe Vincenzo Lantelme, nato il 2 febbraio 1886; Emilio Lantelme, nato il 5 aprile 1888, già riformato per invalidità alla gamba destra, chiamato alle armi per mobilitazione nel 1916 nel 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles ed esonerato secondo il «R.D. 29 aprile 1915, n. 561, relativo alle esonerazioni temporanee dal servizio effettivo sotto le armi dei militari richiamati». I coniugi Lantelme ebbero anche cinque figlie.

Polizza di Assicurazione dell’Istituto Nazionale Assicurazioni Roma.(Archivio Riccardo Lantelme)

Rientrato in Italia, il 29 settembre si presentò alle armi, 34º Reggimento fanteria. Il 28 marzo 1918 giunse al fronte: era un ragazzo di 18 anni18.
Al padre Giovanni rimase per quel figlio che partiva una speciale polizza a favore dei combattenti dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni di Roma: se Firmino non fosse tornato al padre sarebbero spettate Mille Lire19. Ma Firmino fortunatamente tornò e la polizza è ancora oggi custodita dai figli.

18 I “ragazzi del ’99” furono chiamati alle armi a partire dai primi mesi del 1917 e inviati al fronte nel novembre 1917 dopo la disfatta di Caporetto.
19 Dopo la disfatta di Caporetto il comando supremo mise in atto una serie di provvedimenti per sollevare le condizioni materiali e morali dei soldati: vitto più abbondante, licenze più frequenti, maggiori possibilità di svago. Si pensò inoltre di offrire ai combattenti un segno della gratitudine della Patria concedendo ai soldati speciali polizze gratuite di assicurazione.
Volute dal Ministro delle finanze Nitti, queste assicurazioni furono istituite con Decreto Luogotenenziale 10 dicembre 1917 n. 1970 che stabiliva: «L’Istituto Nazionale delle Assicurazioni è autorizzato ad emettere le seguenti polizze di assicurazione.
[...] Per un capitale di L. 1.000 a favore di tutti i militari e graduati delle truppe combattenti pagabile immediatamente dopo la morte degli assicurati, qualora questa avvenga durante la guerra e sia dovuta a causa che non dia diritto a liquidazione di pensione privilegiata di guerra o qualora la morte avvenga entro trent’anni dalla data della polizza». Nell’Europa in guerra furono le prime assicurazioni di questo tipo.

Firmino dal 1º aprile 1918 entrò a far parte degli arditi, nel XIII Corpo d’Armata, 21º reparto d’assalto, 3ª Compagnia. Gli arditi erano gli uomini nuovi della guerra: creati nel luglio del 1917, erano reparti scelti e preparati all’attacco. Mentre l’addestramento della fanteria era ormai superato rispetto alla nuova guerra di trincea, il corpo degli arditi fu creato con nuove modalità di reclutamento e di preparazione. Ufficiali e soldati erano volontari, lo spirito di corpo era una delle loro forze che unito al duro addestramento li doveva rendere invincibili: ginnastica, lotta a corpo a corpo, istruzioni ed esercitazioni sull’uso delle bombe a mano e delle armi, simulazioni di attacchi in situazioni vicine alla realtà e infine ripetizione di esercitazioni per ottenere automatismi nell’azione, tutto questo conferiva agli arditi una professionalità sconosciuta al resto della truppa. Nell’orrore delle trincee i soldati sovente diventavano «oggetti passivi, disorientati e frastornati, condizionati infine ad un’obbedienza supina che li portava a morire senza la possibilità di una presa di coscienza o di una reazione autonoma» 20, caratteristiche che erano andate bene al Cadorna che voleva dalla truppa soprattutto obbedienza passiva e rassegnazione.

L’ardito. Cartolina militare (AUSSME)
Il nuovo Corpo fu creato quando i comandi presero coscienza che dopo anni di massacro non bastavano più il patriottismo e il senso del dovere per spingere gli uomini all’assalto, ci voleva un diverso trattamento. Gli arditi ebbero il vantaggio di non vivere nelle trincee21, di avere migliori condizioni di vitto e di alloggio,di avere un “soprassoldo” e più licenze, oltre ad un armamento migliore (il moschetto modello ’91, più leggero del fucile a baionetta, il pugnale, più corto e maneggevole della baionetta e adatto al combattimento corpo a corpo, e i petardi Thévenot). Anche la loro divisa li lasciava più liberi nei movimenti: niente colletto chiuso dell’uniforme ma maglione e giacca aperta, niente zaino pesante ma agile tascapane a tracolla per le bombe a mano. Tutti questi elementi concorsero a dare agli arditi un elevatissimo spirito di corpo e un’aggressività eccezionale che li portò nel 1917 ai primi successi e ad essere il terrore dei nemici.
Quando Firmino Lantelme entrò negli arditi il suo reparto, il XXI, fu inviato a Conco, sull’Altopiano di Asiago, al comando del maggiore Moro-Lin. Il 20 maggio il reparto di Lantelme fu assimilato al XIII e dopo due mesi di duri scontri sull’altopiano scese in pianura, a Montegalda, tra Vicenza e Padova, per meglio prepararsi allo scontro con l’esercito austro-ungarico che, tra il 15 ed il 22 giugno 1918, lanciava la sua ultima grande offensiva nel tentativo di impossessarsi delle risorse alimentari della Pianura Padana e di costringere l’Italia all’armistizio liberando così forze da utilizzare sul fronte franco-tedesco. La cosiddetta
battaglia del Solstizio fu scatenata su tre fronti: il Tonale, il Grappa e il Piave. Sconfitti sui primi due fronti, agli austriaci non restava che sfondare sul Piave dove però si trovarono davanti l’acqua alta e i bombardamenti sui ponti. È in località Fossalta, in provincia di Venezia, sulla sponda destra del Piave, che il XIII reparto d’assalto fu impegnato per quattro giorni in una serie di continui e sanguinosi attacchi, con un bottino di 1.500 prigionieri, 32 mitragliatrici e 4 pezzi d’artiglieria. Il XIII aveva perso in combattimento o annegati nel Piave 3 ufficiali e 32 soldati.
Firmino partecipò dunque alla vittoria della 2ª battaglia del Piave, fondamentale per la salvezza dell’Italia, vittoria che diede alle truppe un nuovo slancio dopo la disfatta di Caporetto.
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20 Giorgio Rochat, Gli arditi della Grande guerra. Origini, battaglie e miti, Pordenone, Libreria Editrice Goriziana, 2001, p. 35.
21 I reparti degli arditi venivano portati in prossimità della linea del fronte solo al momento dell’assalto per potere dare il massimo rendimento.
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Dopo alcune settimane trascorse in addestramento, il 7 agosto 1918 il XIII reparto d’assalto fu spostato a Valbella, sull’Altopiano d’Asiago, dove si scontrò con le truppe d’assalto austriache e dove ebbe gravi perdite a causa dei fitti reticolati e della scarsa conoscenza del terreno.
Il reparto prese parte il 21 agosto 1918 alla cerimonia di Granze delle Frassinelle in cui Vittorio Emanuele III consegnò ai reparti d’assalto i gagliardetti di combattimento. Troviamo ancora il Lantelme impegnato nell’ultima battaglia, quella di Vittorio Veneto: il suo reparto fu infatti mobilitato dal 23 ottobre 1918 per l’attacco finale che doveva concludersi con l’armistizio. Il passaggio del Piave era previsto per il 24 ottobre ma le piogge torrenziali e la piena del fiume lo fecero rimandare di due giorni. Il XIII reparto d’assalto, avanguardia del XXII corpo d’Armata, dopo aver guadato il fiume nella notte del 26, ingaggiò furiosi combattimenti corpo a corpo nelle trincee nemiche, avanzando verso Soligo. L’Impero Austriaco dal 29 ottobre iniziò la ritirata e il 30 ottobre le forze italiane dilagarono in massa oltre il Piave, lanciandosi all’inseguimento dei reparti nemici: la resistenza delle retroguardie nemiche si rivelò debole e quella stessa mattina i primi contingenti italiani entrarono a Vittorio Veneto. Anche per il XIII reparto d’assalto la guerra era finita, ma non la sua storia. Per Firmino Lantelme iniziava un’altra avventura, quella in Libia.
Documento della campagna libica. (Archivio Riccardo Lantelme)
Il 13 febbraio 1919 i reparti d’assalto XII e XIII con il VII Battaglione bersaglieri partirono da Venezia per la cosiddetta “Quarta sponda” e sbarcarono a Tripoli il 17 febbraio; rimasero in Libia con compiti di polizia territoriale per qualche mese e il 30 giugno rientrarono a Venezia.
Il nostro Firmino dalle sue montagne era giunto fino sulle coste dell’Africa, ma la sua ferma non era ancora terminata: in Italia con il suo reparto d’arditi fu utilizzato per controllare le frontiere del difficile confine orientale serbo-croato-sloveno. Il XIII reparto d’assalto fu sciolto il 10 gennaio 1920 e ufficiali e soldati furono trasferiti nel XXII. Con il XXII reparto d’assalto Lantelme fu inviato in Albania dove gli arditi furono impegnati in combattimenti contro le rivolte anti-italiane nel giugno del 192022. Rimpatriato il 19 agosto, il reparto prese stanza a Palmanova, in Friuli, dove fu sciolto e attribuito alle compagnie del XX reparto d’assalto, l’ultimo rimasto attivo e poi sciolto il 28 febbraio 1921.
Il nostro Firminio che aveva seguito tutte le sorti del suo reparto, dopo il definitivo scioglimento degli arditi continuò il servizio militare nel deposito fanteria di Torino.

22 L’Italia fece includere nel Trattato di Londra dell’aprile 1915 la clausola che l’Albania, Stato autonomo dal 1912, diventasse protettorato del Regno italiano e ottenne la piena sovranità su Valona e sull’isola di Saseno. L’Italia portò la guerra in Albania con lo sbarco del XVI Corpo d’Armata nel maggio 1916. Finita la guerra l’Albania, secondo i principi di Wilson di autodeterminazione dei popoli, sarebbe dovuta ritornate uno Stato sovrano ma l’Italia cercò di mantenere il suo controllo con conseguenti violente rivolte da parte della popolazione albanese.

Firmino Lantelme, al centro con la coppa. (Archivio Riccardo Lantelme)
Fu mandato in congedo illimitato il 24 febbraio 1921: erano passati 3 anni e cinque mesi da quando aveva lasciato le sue montagne. Sul suo foglio matricolare non sono segnate licenze. Rientrato in famiglia iniziò il suo lavoro in ferrovia e visse con i suoi genitori fino alla morte del padre avvenuta nel 1929. Nel 1930 si sposò con Felizia Rey e dal loro matrimonio nacquero Irma nel 1931 e Riccardo nel 1933. Dai loro racconti escono i ricordi più cari: il padre faceva parte della squadra del dopolavoro ferroviario ed era un campione di sci di fondo. Negli anni ’30, con i compagni della squadra, si recava nelle località sciistiche più in voga, Cortina, Asiago, e portava a casa medaglie e trofei che ancora oggi i figli conservano e mostrano con orgoglio.
Firmino ebbe l’incarico dalle Ferrovie di lavorare come guardiano alla diga di Rochemolles: lavoro duro, soprattutto in inverno, quando si rimaneva in due da soli per una settimana nel candore delle nevi, isolati dal mondo. I custodi della diga si davano il turno una volta alla settimana e d’inverno salivano con gli sci, carichi come bestie perché si portavano il cibo e il vino per tutta la settimana. Per aiutarsi nel trasporto dei generi di necessità, in inverno salivano in quattro e i due che accompagnavano scendevano con quelli che finivano il turno. Ma il 4 gennaio 1943 successe la disgrazia. Erano le due del pomeriggio, i quattro compagni erano pronti per partire, si infilarono gli sci ma all’ultimo momento uno di loro si accorse di aver dimenticato lo zaino e tornò indietro. In tre incominciarono la discesa: insieme a Firmino c’erano il giovane Edo Allemand ed Ernesto Allemand.
 Appena partiti, ad un centinaio di metri dalla diga, tagliarono inavvertitamente la neve e si staccò la valanga: Edo era parzialmente coperto ed Ernesto lo salvò ma non riuscì ad individuare il punto dove era sepolto Firmino. Scavarono a mani nude, ma quando lo trovarono per Firmino non c’era più nulla da fare. Aveva 43 anni e lasciava la moglie con i due bambini, Irma di 12 anni e Riccardo di 8. Per la povera famigliola iniziò una vita grama, tra mille difficoltà per tirare avanti, lavorando nei campi senza più il sostegno dello stipendio del padre.
Firmino non aveva mai parlato della sua guerra, nemmeno alla moglie; forse, se fosse vissuto fino alla vecchiaia, ci dice il figlio Riccardo, col tempo avrebbe raccontato, almeno a lui che era il figlio maschio. Ma rimangono di Firmino le belle fotografie e i ricordi custoditi con affetto dai suoi figli.

FONTI: Archivio di Stato di Torino, fogli matricolari di: Firmino Lantelme, Giuseppe Antonio Lantelme,
Giovanni Emilio Lantelme. – Documenti e fotograEe di Riccardo Lantelme. – Testimonianza dei Egli Irma e Riccardo Lantelme. – Basilio DiMartino,Filippo Cappellano, I reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra (1915-1918), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, Roma 2007, pp. 423-435 e p. 542. – Giorgio Rochat, Gli arditi della Grande guerra. Origini, battaglie e miti, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone 2001.


CAMILLO MASSET (MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE)
Chi percorre la statale 48, che mette in comunicazione la conca di Cortina d’Ampezzo con Misurina, al passo Tre Croci può ancora oggi imbattersi in un segno della guerra aspramente combattuta su queste montagne: protetto dai larici sorge un cippo in cemento sormontato da una colonna spezzata su cui si legge «MASSET CAMILLO, Sottotenente 7º Alpini», unico cimelio rimasto del cimitero di guerra del passo Tre Croci. Era questo un piccolo cimitero con un recinto di semplici tavole di legno che racchiudeva un centinaio di croci bianche e, vicino ad una piccola cappella votiva, la tomba del Masset: gli alpini vollero certamente onorare con questa stele di cemento il loro ufficiale che per la sua eroica morte fu insignito della medaglia d’argento al valor militare.
Le salme del cimitero furono esumate agli inizi degli anni Venti, quando tutti i cimiteri di guerra e le migliaia di tombe sparse sui luoghi delle battaglie furono smantellati; in un primo tempo la bara di Masset con quelle dei suoi alpini fu portata nel grande Cimitero degli Eroi del Cadore e nel 1939 traslata nel Sacrario militare di Pocol nei pressi di Cortina d’Ampezzo dove Camillo riposa per sempre (tomba 2921).
La colonna che porta il suo nome fu rinvenuta casualmente negli anni ’90 – durante i lavori del Gran Hotel Tre Croci – e risistemata dove un tempo sorgeva il piccolo cimitero di guerra; il gruppo ANA di Cortina ha provveduto a rafforzare la base del cippo in modo che possa essere conservato nel tempo. Ora, ben protetto da larici e da stupende montagne, ricorda ad ogni passante gli orrori della guerra e il nome del nostro eroico concittadino.
Ci piace pensare che siano le montagne a proteggere la memoria di Camillo Masset partito nel 1915 dalla conca di Rochemolles per andare in guerra.
Passo Tre Croci: cippo in memoria di Masset Camillo. Il piccolo cimitero di Passo Tre Croci. (foto storica di Roberto Zardini tratta da LA RIVISTA, bimestrale del Club Alpino Italiano, settembre/ottobre 2008, p. 36)

Fotografia con dedica alla moglie Margherita. Camillo (a sinistra) con il
fratello Giuseppe, entrambi alpini in partenza per la guerra. 
(Archivio fam. Durand)
Camillo era nato il 18 maggio del 1888 e viveva come tutta la sua famiglia della povera economia di montagna. I suoi genitori, Enrico Masset e Rosa Melanto, avevano avuto quattro figli: per prima era nata Emilia nel 1878, poi Giuseppe Antonio, il 19 luglio 1881 (nonno della sig.ra Erosia Masset che ci ha aiutati a ricostruire la storia della famiglia); seguì il nostro Camillo e infine il più giovane, Enrico Francesco. La sorella seguì la madre Rosa a Parigi, dove si era trasferita per fare la governante; Emilia, bellissima ragazza, a Parigi si sposò e visse fino in tarda età, quando rientrò a Bardonecchia per ricongiungersi con la famiglia e dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1964.
Giuseppe Antonio, che aveva ottenuto l’attestato di “Guida alpina” durante il servizio militare, svolto tra il 1902 e il 1903 nel 3º Reggimento alpini, nel 1909 emigrò in Francia per lavoro. Con lo scoppio della guerra, nel giugno del 1915, fu richiamato alle armi nel 3º Reggimento alpini e inviato presso la Compagnia presidiaria di Cortina d’Ampezzo. Ritornò dalla guerra nel novembre del 1918.
Enrico Francesco23, il più giovane, chiamato alle armi nel 1916 nel 3º Reggimento alpini, fu riformato
per ernia inguinale. 
 Anche Camillo entrò nel 3º Reggimento alpini nel 1908 e raggiunse il grado di caporal maggiore; finì il servizio militare nel 1910 e si sposò con Margherita Vallory. Nel 1911, il 18 agosto, nacque la loro bambina che chiamarono Rosa, come la nonna.
Bauletto dell’uffciale Masset Camillo. (Archivio famiglia Durand)
Ma Camillo si godette poco la piccola perché il 12 maggio del 1915 fu di nuovo chiamato alle armi e questa volta per la mobilitazione in vista della guerra: nel marzo del 1916 arrivò al fronte, nel novembre dello stesso anno fu assunto in forza nel 24º Reggimento fanteria per frequentare il corso di allievi ufficiali.
Lo ritroviamo aspirante ufficiale di complemento nel 7º Reggimento alpini, Battaglione Val Piave e infine
il 1º febbraio del 1917 sottotenente di complemento.
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23 Francesco Masset fu Sindaco di Bardonecchia dal 1955 al 1956, ed è così ricordato negli Archivi comunali: «Cav. Francesco Masset, per molti anni Giudice Conciliatore e Consigliere Comunale, rivelò nelle varie cariche un profondo buon senso, sdrammatizzando e portando le cose alle giuste proporzioni».


La sua carriera si interruppe al Salto Superiore del Forame quando «comandante di un posto avanzato, in località difficile, all’inizio di un bombardamento avversario, che con tiro preciso sconvolgeva le nostre difese, volle personalmente portarsi presso le vedette per assicurarsi della loro incolumità, per incoraggiarle e rassicurarle».

Era il 16 agosto del 1917, Camillo correva da una vedetta all’altra, incoraggiava i compagni, cercava di tenerli fermi ai loro posti, quando una granata lo colpì. «Morì serenamente », ci dice la retorica della guerra.
Ma come può morire serenamente un giovane di 29 anni disintegrato da una granata?
La guerra gli prese la giovinezza, la vita, le speranze, i sogni di giovane padre, ma gli diede una medaglia.  Camillo Masset fu decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Rimangono di Camillo tre cartoline postali che spedì dal fronte alla famiglia. In quella del 12 maggio 1917 sentiamo tutto l’amore per la moglie e la tenerezza per la piccola Rosa:
«Carissima, mia salute sempre ottima come spero di te e di tutta la cara famiglia. La mia speranza è fortissima che stà cartolina ti giunga al paese. Abbraccia caramente la mia piccina, gradisci i miei più caldi baci, tuo marito Camillo».
Lettera dell’avv. Armando De Marchi. (Archivio Comune Bardonecchia)
In un’altra si sente che Camillo si sforza di infondere coraggio alla moglie perché le sue poche parole sono cariche di allegria: «Carissima, spero che la presente ti trovi in mezzo alla cara famiglia e in buona salute. Sempre allegro, tuo marito Camillo». Sarà la sua ultima lettera, scritta l’11 giugno 1917: dopo due mesi la sua giovane vita era finita.
A Rochemolles rimasero la giovane moglie di 27 anni e la piccola Rosa che di anni ne aveva solo sei. Rosa chiamò suo figlio Camillo, come suo padre: anche lui andò a vivere in Francia, a Parigi, dove si sposò ma in una disgrazia morirono la moglie e il figlioletto. Nel 1939 il Podestà di Bardonecchia, avv. Armando De Marchi, in risposta alla richiesta del Comando del presidio Militare di segnalare un eroe della Grande Guerra cui intitolare la nuova caserma della Guardia alla Frontiera nell’odierno viale Bramafam, proponeva il nome del sottotenente Masset Camillo quale fulgido esempio di soldato esemplare e di  cittadino probo e onesto. Concludeva la sua lettera con queste parole: «Intitolando alla memoria di Masset Camillo la nuova Caserma della Guardia alla Frontiera, verrà reso omaggio alla memoria di uno dei figli migliori del nostro Comune, e certo l’omaggio gentile sarà molto gradito alla popolazione ».
La pratica forse si insabbiò per la guerra imminente e rimangono solo le belle intenzioni: la caserma in questione fu infatti chiamata Caserma Tabor.

FONTI: Paolo Giacomel, Arrivederci.
Aufwiedersehen Cortina d’Ampezzo.
1915-1939 cimiteri di guerra, Regole d’Ampezzo e Parco delle Dolomiti d’Ampezzo, Cortina d’Ampezzo 1997, pp. 184-186.
– LA RIVISTA, Bimestrale del Club Alpino Italiano, settembre ottobre 2008, pp. 36 -37.
– Archivio di Stato di Torino, fogli matricolari di: Camillo Masset, Enrico Francesco Masset, Giuseppe Antonio Masset.
– Istituto del Nastro azzurro, decorati al valor militare.
– Archivio del Comune di Bardonecchia.
– Lapidi del cimitero di Rochemolles.
–Testimonianza della Sig.ra ErosiaMasset.

Si ringrazia la sig.ra Margherita Masset Durand per averci concesso la pubblicazione delle lettere e delle immagini dell’archivio Durand.

GIUSEPPE ROGGERO
La fotografia di Giuseppe Roggero era stata pubblicata sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” il 10 ottobre 1915 insieme a quelle degli altri soldati che in quei mesi avevano dato la vita alla Patria, raccolti sotto il titolo “CADUTI SUL CAMPO DELL’ONORE NELLA GUERRA SANTA D’ITALIA”.
Il giovane viso è quello di un ragazzo di 20 anni nella sua divisa di alpino. Giuseppe era nato a Bardonecchia il 5 maggio 1894, suo padre proveniva da San Marzanotto, una frazione di Asti, ed era a Bardonecchia per lavoro. Faceva il cantoniere e la famiglia abitava in via Sommeiller 8, dove nacque Giuseppe. Dopo la guerra la famiglia lasciò Bardonecchia e si trasferì a Settimo Torinese.
Giuseppe lavorava già nelle Ferrovie quando si presentò anticipatamente alla visita di leva firmando una
ferma di tre anni negli “allievi carabinieri a piedi”; un problema di salute gli impedì però di concludere il suo progetto. Chiamato alle armi il 10 settembre 1914, all’entrata in guerra dell’Italia era sul fronte, con il 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles, 84ª Compagnia.
Gli alpini dell’84ª Compagnia nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1915 mossero dalla cresta del Kozliak verso la vetta del Monte Nero; giunti in cima si lanciarono all’assalto travolgendo i difensori e dopo un’aspra lotta corpo a corpo conquistano la posizione sulla vetta.
Con loro c’era anche il nostro Giuseppe Roggero.
Ma la sua guerra doveva finire presto: nei giorni seguenti l’84ª Compagnia proseguì le azioni di conquista delle postazioni nemiche sui versanti del Monte Nero e il 3 luglio attaccò il monte Rudeci Rob, ma investita da violente raffiche di artiglieria dovette retrocedere.
È possibile che Roggero sia stato colpito durante questo combattimento, poiché ferito al petto fu ricoverato nel 1º Reparto someggiato della sezione di sanità dell’8ª Divisione dove morì il 6 luglio 1915. Fu sepolto a Smast, piccolo villaggio sulla riva sinistra dell’Isonzo, frazione di Caporetto.
«L’anno Millenovecentoquindici ed alli sei del mese di Luglio nel primo reparto someggiato della Sezione Sanità dell’ottava Divisione mancava ai vivi alle ore nove e minuti trentacinque in età d’anni vent’uno e mesi due il soldato del terzo Reg.to Alpini ottantaquattro.
ma Compagnia al Nº 22695 di matricola. Roggero Giuseppe nativo di Bardonecchia, provincia di Torino figlio di Fassio e di Argenta Caterina, è morto in seguito a ferita d’arma da fuoco all’emitorace destro sepolto a Smast».
A cent’anni dalla morte, vogliamo ricordare questo sconosciuto giovane, bardonecchiese di nascita, a cui la guerra fermò progetti, sogni e speranze.

FONTI: Archivio di Stato di Torino, foglio matricolare. – Museo Centrale del Risorgimento, Roma: atto di
nascita e di morte, fotograEa. – Pierluigi Scolè, 16 giugno 1915. Gli Alpini alla conquista di Monte Nero, Il
Melograno Editore, Bollate (Mi) 2010. – www.frontedelpiave.info

GIOVANNI VALLORY
Dei tre fratelli Vallory di Rochemolles, solo Giovanni era partito per la guerra: Antonio, il più vecchio, nato nel 1878 era stato riformato per la dentatura guasta e Giuseppe, classe 1880, non partì a causa di un’ernia inguinale. Giovanni era nato il 27 gennaio 1888, era dunque il figlio più giovane dei coniugi Vallory, Pietro ed Enrichetta Garcin.
Come molti giovani di Rochemolles anche i Vallory proseguirono gli studi oltre la terza elementare, ultima classe presente nella scuola del paese. Sappiamo che Antonio era maestro al Vernet dove si sposò e visse. Di Giovanni è rimasta invece tutta la documentazione scolastica, fino alla quinta ginnasio, conservata dalla famiglia e ora custodita dal nipote Alberto. Dopo la terza si trasferì dai parenti a Jovenceaux (frazione di Sauze d’Oulx) per finire le elementari a Oulx; poi entrò nel Seminario di Susa dove frequentò il ginnasio. Da quelle pagelle ingiallite di inizio ’900 esce un bravo studente che aveva ottimi voti, soprattutto in matematica: ma il nostro montanaro studiò anche il latino, il greco e la filosofia. I suoi risultati ginnasiali erano brillanti, soprattutto tenendo conto della severità della scuola dei primi anni del ’900: in prima ginnasio, classe frequentata nell’anno scolastico 1900/901, ottenne 39/40, in seconda 35/40, in terza 36/40, in quarta 45/50, e in quinta fu promosso al corso di filosofia con 116/140. Nel 1905, abbandonato il Seminario, Giovanni tornò a Rochemolles ma non mise a frutto i suoi studi: riprese a fare il contadino per non abbandonare la sua terra. Giovanni tenne per sé la sua cultura, per tutta la vita lesse i giornali, il nipote ricorda che era abbonato a La Stampa, alla Valsusa e alla rivista del Touring Club Italiano. Alla visita di leva del 1908 fu riformato per «debolezza di costituzione grave» dovuta probabilmente alla scarsa alimentazione e alla vita grama della montagna. Nel 1911, dopo la morte della mamma, partì per la Francia, andò a Saint Etienne, vicino a Lione, a lavorare nelle miniere di carbone24: rimane di quel periodo il suo libretto di risparmio francese in cui l’ultima data è del febbraio 1913.

24 Nella prima metà del Novecento Saint Etienne, grazie ad un ricco bacino carbonifero, ebbe un notevole sviluppo industriale; più di 900 erano i pozzi di estrazione all’interno dei confini cittadini, l’ultimo dei quali fu chiuso nel 1983. La maggioranza dei minatori era composta da immigrati, di cui molti italiani.
25 Due specie di piastrini furono usati in guerra: il primo era un rettangolo di zinco, sul quale, con apposito inchiostro, erano scritti il nome e il cognome del soldato, il reparto cui apparteneva, la sua classe e la sua categoria. Veniva cucito sotto il risvolto della giubba, tra il secondo e il terzo bottone. Ma poiché, durante la guerra, fu necessario annotare anche le varie iniezioni che il soldato doveva subire, venne adottata un’altra forma di piastrino, una piccola custodia di latta, entro cui era
una striscia di carta piegata in tre, che il soldato portava al collo come una medaglia.

Ma tra i tanti documenti custoditi dal nipote Alberto i più importanti e anche straordinari per l’eccellente stato di conservazione sono quelli che riguardano la guerra. Si tratta del piastrino metallico che tutti i soldati tenevano appeso al collo25 e una busta di stoffa grigia in cui Giovanni teneva le lettere o i documenti. Nella custodia di stoffa grigia ci sono le tre lettere che Giovanni ricevette al fronte, sono dei suoi fratelli che gli scrivevano da Rochemolles: da quelle paginette ingiallite esce la preoccupazione per i pericoli che sta correndo il fratello più giovane ma anche la concretezza della vita di montagna.
I due fratelli fanno dei veri e propri resoconti dell’economia familiare scandita dai ritmi delle stagioni: c’è la fiera di ottobre in cui si sono venduti degli animali, c’è il fieno comprato, c’è il prezzo del vino aumentato,
e poi ci sono le notizie sugli altri giovani del paese anche loro in guerra o tornati per le licenze. Vale la pena di leggerle perché ne esce un mondo che non esiste più e per il quale forse si sente una lontana
nostalgia.
Nella lettera del fratello Antonio, il maestro del Vernet, la bella calligrafia e lo stile curato rendono scorrevole la lettura. La lettera del 1º novembre 1916 si apre con il ricordo dei genitori morti da pochi anni e con il padre che torna in sogno al figlio: «Caro fratello, penso che tu abbia ricevuto il vaglia che ti ho mandato il 22 dello scorso mese e che tu sii sempre in buona salute. Domenica scorsa ho visto Giuseppe che è  venuto alla provvista di vino perché ora è un po’ diminuito prendendolo all’ingrosso cioè a lire 65 all’ettolitro ma all’osteria è persino aumentato è ora 1,10 e 1,20 al litro e mi ha detto che era per averne poi quando tu verrai in permesso e mi ha detto che aveva sentito dire che le permissioni cominciavano già da ora.

In questi giorni di meste ricordanze ci vengono più a mente i nostri cari che ci hanno lasciato soli26, Dio voglia che riposino beati in cielo. Per due notti, cioè ieri sera e la notte del 29 vidi in sogno papà, la prima notte lo vidi innanzi alla chiesa che veniva da casa per la stradicciola che conduce da Teva27, io subito l’abbracciai e dopo rientrò in chiesa e io mi svegliai deluso, e ieri sera lo vidi al borgonuovo dinnanzi alla cantina di San Damiano d’Asti, l’abbracciai pure e mi sentii le sue labbra umide a contatto delle mie e non mi ricordo se ci siamo scambiati qualche parola, poi egli entrò nella cantina ed io mi svegliai; cosa voglia dire questo io non lo so, quantunque si dica che non bisogna prestar fede ai sogni per non cadere  in superstizioni, che abbia bisogno di qualche cosa da me?
Non lasciarmi tanto tempo senza le tue nuove perché essendo tu esposto al pericolo più ho tue notizie, più son tranquillo. Ti ripeterò ciò che ti avevo scritto in principio d’ottobre, Giuseppe menò alla fiera una vacca che vendette lire 418 e un vitello maschio che pure vendette non so quanto e alla seconda fiera vendette delle pecore, le vacche avevano un prezzo presso a poco come l’anno scorso ma i vitelli maschi specialmente sono diminuiti di un buon pezzo. Io pure ho venduto il mio mulo per là al 20 settembre, appena ebbi il mio fieno pagato cioè lire 120 di guadagno, non gli feci più far nulla dalla fine di luglio e quando lo uscii dalla stalla per farlo vedere al negoziante Perron d’Oulx, pareva un mostro, si rizzava sulle gambe di dietro, io colsi l’occasione per venderlo, avrei potuto venderlo di più, ma ero stanco di due bestie tutta l’estate a mangiare fieno e quando erano qualche giornata tutti e due nella stalla avevo sempre paura arrivando di avere qualche triste sorpresa. [...]».

26 Il padre Pietro Vallory, nato nel 1854, era morto nel 1914 e la madre Enrichetta Garcin era morta nel 1910.
27 Teva, toponimo di abitazione di Rochemolles.

Antonio era più grande di Giovanni di dieci anni, era quasi un padre per lui, e le sue premure lo testimoniano: «Ti mando i francobolli che mi hai chiesto, se hai bisogno di qualche cosa, non hai che a dirlo, per esempio calze, o non so io, io farò al più presto per inviartelo, te lo dico sinceramente.[...] Caro fratello, procura di passartela alla meglio che puoi, so che molto bene non sei, ma abbi pazienza, il Signore dà forza a chi si rivolge a lui e quei tristi giorni passeranno e ne giungeranno altri meno tristi. Ricevi caro fratello un abbraccio e un grosso bacio dal tuo fratello che ti ama, Antonio».
Del fratello Giuseppe rimangono due lettere, la prima del novembre 1916 e la seconda del dicembre 1916. La prima è, per il linguaggio usato, un vivissimo documento: le frequenti trascrizioni del dialetto ci riportano infatti nella Rochemolles di inizio Novecento.
«Caro fratello, ho ricevuto le tue cartoline sulle quali godo che tu sei in buona salute al par di noi tutti, per ilmomento grazie a Dio. Se ho tardato a scriverti non è che ti voglia male anzi penso sovente a te prego Iddio che ti aiuti che ti salvi dal pericolo a cui sei esposto come ho visto sulla tua ultima che l’hai scampata bella mi fa rabbrividire nel sentire simili cose bisogna pensarsi che sono cose dolorose per chi ci tocca di essere esposto in faccia ad un crudele nemico.
I lavori campagnoli sono terminati perché è già venuta molta neve e già si è tornata a sciogliere.
Io meno28 tutti i giorni letame, ho già menato in marin29 o besen30 o marmutie31 alla sera [h]o sonno e al mattino [h]o lavoro così il tempo passa per scriverti quelle poche parole. Abbiamo ancora da battere il grano e il frumento. Abbiamo venduto il bue bianco cento venti lire il brutto settanta e la madre del bue brutto lire quattrocento e le pecore non erano tanto care ne ho solo venduta una con tre montoni.
Quel Antonio de la plase32 e Antonio Souberan sono venuti in licenza per venti giorni sono ancora le licenze agricole. Quel Emilio Issard ha di nuovo una licenza di quaranta giorni deve avere la gastrite i visceri non digeriscono.
Ti aspettiamo tutti i giorni perché le licenze devono essere aperte e forse per sempre perché si parla che ci sarà una grande conferenza per risolvere di una pace bisogna pregare Iddio che loro ispiri buona idea di liberar tanta gente da quei pericoli. Noi siamo destinati alla visita il 1º dicembre ci siamo quattordici iscritti sul registro non ne hanno lasciato nessuno da parte non so come andrà e come sarà la mia sorte.
Vi è quel be bote33 do Tournour e quel Luigi Lambert sono partiti in questi giorni a imparare da automobilisti come pure si dice che quel Francesco Durand che anche esservi andato ora è al paese. Tutti quelli che sono buoni a rabela la grulle34 hanno passato la montagna sono tutti in Francia e fa sì che un po in Francia e un po alla guerra non vi è più nessuno al paese. Quel Luigi Cabaret35 ha detto che conosceva già gli amici di quel guset36 come pure tu li conoscerai anche. Quel Antonio do rou37 è in convalescenza per due mesi quel Giovanni Vahin38 e quel Antonio do Seberan39 sono anche venuti per le licenze agricole.
Addio, caro fratello, sempre coraggio, finirà anche questo volesse Iddio far finire questo flagello.

28 Menar, in dialetto “portare”.
29 Marin, toponimo di Rochemolles, località a nord del paese.
30 Besen, toponimo di Rochemolles, località a nord del paese.
31 Marmutie, toponimo di Rochemolles, località ad ovest del paese.
32 La Plase, toponimo di un’abitazione di Rochemolles.
33 Be bote, in dialetto “bel ragazzo”.
34 Rabela la grulle, in dialetto letteralmente “tirarsi dietro le scarpe, camminare”.
35 Cabaret, toponimo di un’abitazione.
36 Guset, parola sconosciuta.
37 Rou, toponimo di un’abitazione.

Tutta la famiglia ti saluta, la tua figlioccia comincia a balbettare ci passa la noia. Ti saluto di vero cuore sono tuo fratello Giuseppe. A rivederci a presto ora vado a letto».
La seconda, dell’11 dicembre 1916, è stata scritta dopo che era giunta la notizia che Giovanni in seguito al congelamento dei piedi sul Monte Pasubio era stato allontanato dal fronte.
«Caro fratello, mi affretto a risponderti alle tue cartoline, una datata da Torino e l’altra da Pinerolo sulle quali godo sentendo che ti hanno levato da quei luoghi terribili; dall’altra parte mi rattrista nel sentirti ammalato ma speriamo che questo sia niente.
Ti ho scritto una lettera da Susa e credo che non l’hai ricevuta perché non me ne parli nelle tue cartoline.
La visita mi è riuscita assai bene per questa volta: quest’autunno mi è successa una disgrazia e mi [h]a servito per riformarmi: mi è venuta un’ernia. Tutti quelli del paese sono stati riformati come pure il nostro fratello Antonio che fu anche riformato per la dentatura, come credo che già lo saprai.
Domani mi recherò subito dal Sindaco per fargli fare quel certificato come mi hai detto e subito te lo spedirò se ti potesse servire per qualche cosa ne sarei contento se tu potessi avere una convalescenza per un po di tempo e venirtene a casa. Ho ricevuto la rivista mensile del Touring Club Italiano il mese di novembre e dicembre che per l’abbonamento dell’anno venturo bisognava pagarlo ai primi di dicembre ed ora io non so come vuoi fare.
Oggi ci è venuto l’invito dal catasto da Oulx per trasmettere la parte comperata dal fratello Antonio come pure per la successione del decesso del nostro padre e bisogna presentarsi non più tardi di dieci giorni dall’avviso.
Pietro Feletti è venuto in licenza come pure quel Oreste. Abbiamo sempre un cattivo tempo quasi tutti i giorni cadde neve e ne abbiamo già una grande quantità. I lavori di casa sono tosto finiti abbiamo ancora da fare una fornata di pane e poi ci vuole solo la salute e che ci lasciano a casa per mangiarlo.
Domenica sono stato a Bardonecchia a pagare l’ultimo semestre dell’imposta militare e ho ancora dovuto pagare la tua parte; non so come vada questo eppure ho già fatto domanda per fartela levare ed è sempre lo stesso. Altre novità non saprei che dirti che a star sempre allegri il più che si può e non darsi alla noia e a sopportare pazientemente il male successo purché non ti rechi danno alla gamba. Tanti saluti ricevi da parte mia e di tutta la famiglia che siamo ansiosi di rivederti presto.
Addio, a rivederci caro tuo fratello Giuseppe».
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38 Vahin, parola sconosciuta.
39 Seberan, toponimo di un’abitazione di Rochemolles.

Giovanni Vallory, riformato nel gennaio 1916, fu richiamato nell’aprile e giudicato abile: dal 5 maggio 1916 lo troviamo nel 3º Reggimento alpini, Battaglione Exilles. Arrivò in territorio in stato di guerra il 13 settembre 1916, sul monte Pasubio.

Erano i giorni in cui era stato deciso l’attacco al Dente Austriaco, a 2206 mt di altezza, conquistato dagli Austriaci il 20 maggio 1916 nel pieno della Strafexpedition e divenuto la postazione più importante degli austro-ungarici sul Pasubio, rimasta in loro possesso fino alla fine del conflitto.
La prima azione tentata il 10 settembre era fallita per la nebbia e il tempo avverso. Il secondo attacco fu lanciato dal Dente Italiano il 9 ottobre 1916: le bocche di fuoco lanciarono una quantità dimunizioni impressionante sul Dente Austriaco che rispose con altrettanta violenza.
Le due montagne si trasformarono, secondo le testimonianze dei soldati, «in un vero e proprio vulcano in eruzione». La battaglia proseguì fino al 20 ottobre in condizioni estreme con eroici combattimenti degli alpini dei Battaglioni Monte Berico, Cervino, Exilles, Aosta e dei fanti della Brigata Liguria. In soli 11 giorni di operazioni su tutto il fronte d’attacco, gli italiani persero tra morti e feriti 4.370 soldati e gli austriaci 3.492: in totale quasi ottomila soldati fuori combattimento. Nella notte del 20 ottobre il tempo era cambiato improvvisamente ed era iniziata una tormenta di neve che fermò le operazioni. «Cominciava per noi la lotta contro il nuovo e più terribile nemico. Dalla notte del 21 ottobre fino al giugno del 1917 la neve non ci abbandonò più. Essa divenne il nostro primo elemento in questi otto mesi d’inverno rigidissimo che ci temprò l’animo ed il corpo a fatiche, privazioni, dolori, ardimenti, ben più gravi della stessa guerra combattuta contro i nemici»40. Le temperature scesero fino ameno 25, i soldati non avevano ripari appropriati alla improvvisa tormenta, le tende sprofondavano sotto la neve, gli abiti bagnati e gelati diventavano una tortura. «A poco, a poco, lo strato di neve sopra i vestiti aumentava e col freddo gelava, dando alla stoffa la durezza del legno. Il cappotto diveniva una cappa rigida dentro cui ci si muoveva a fatica»41. I soldati iniziarono a scavare gallerie sotto la neve e vi si rifugiavano come fossero nelle tane.
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40 Michele Campana, Un anno sul Pasubio, Rossato Editore, Valdagno 1997, pp. 98-99.
41 Op. cit., p. 101.

Rochemolles, 1964:
Giovanni Vallory con il nipote Alberto.
È in quei giorni di condizioni estreme che il nostro Vallory, pur abituato alla neve e temprato alle rigide condizioni della montagna, ebbe un congelamento ai piedi. Il 2 dicembre fu ricoverato all’ospedale di Thiene e poi in quello di Torino e Pinerolo. Il foglio matricolare riporta: «Artrosinovite al ginocchio destro con congelazione ai piedi a Monte Pasubio il 30 novembre 1916»42. Nel gennaio 1917 rientrò al deposito
del 3º Reggimento alpini, fu promosso caporale ma non tornò più al fronte, la grave infiammazione
al ginocchio probabilmente gli impediva di camminare, così come i postumi del congelamento.
Fu questa la sua fortuna, perché fu esonerato dal servizio effettivo. Nel 1919, rientrato dopo il congedo
illimitato, si sposò con Maria Virginia Guillaume: ebbero due figli, Alberto nato nel 1920,
alpino del Battaglione Monte Cervino morto in Russia nel 194243, e Lorenzo, nato nel 1923.
Era un uomo di poche parole che non si lamentava mai e sapeva farsi andare bene tutto; fece sempre il contadino e rimase una persona semplice, come lo vediamo in questa fotografia che lo ritrae nel 1964 con il piccolo nipote Alberto. Giovanni Vallory morì a Bardonecchia il 21 dicembre 1965.

FONTI: Testimonianza di Alberto Vallory. – Documentazione e fotograEe dell’archivio di Alberto Vallory. – Foglio matricolare di Giovanni Vallory. – Lettere dei fratelli Antonio e Giuseppe Vallory. – Michele Campana, Un anno sul Pasubio, Rossato Editore,Valdagno 1997. – Stefano Gambarotto, Enzo Raffaelli, Alpini: le grandi battaglie: storia delle Penne Nere, vol. 4, Il Pasubio; il Grappa; la battaglia d’arresto; la Dne della Grande Guerra; verso un nuovo conEitto; Albania e Grecia; la campagna di Russia,Editrice Storica,Treviso 2009.

PIETRO VARDA
A Bardonecchia, alla fine dell’Ottocento, arrivò un mercante di stoffe: si chiamava Pietro Varda.
I Varda erano due fratelli provenienti da Noasca, nel Canavesano, arrivati in Val di Susa nella seconda metà dell’Ottocento e stabilitisi a Cesana per il loro commercio di tessuti: «Nelle borgate di Cesana i Varda erano conosciuti meglio delle monete da quattro soldi: vestito di velluto a coste verdastro, cappello a parapioggia, scarpe con i chiodi; bianchi e rossi, pieni di salute, camminavano come guardie campestri da una borgata all’altra, da una casa all’altra a vendere la loro mercanzia. [...]
Grossi scampoli di cotone per far grembiuli e fazzoletti, vestitini per bimbi, cotone speciale e percalle per far cuffie del costume, velluto e fustagno per far pantaloni e panciotti, tagli di lenzuola e di camicie, il tutto ben aggiustato in un telone legato, un bel carico sulle spalle sostenuto con il metro rigido da mercante»44.
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42 «Autorizzato a fregiarsi di un distintivo d’onore per la congelazione riportata il 2/12/16». Foglio matricolare di Giovanni Vallory.
43 Con Alberto Vallory morirono nella campagna di Russia altri sei alpini di Bardonecchia appartenenti al Battaglione Monte Cervino: Andrè Alessio, Cantone Francesco, Durand Ernesto, Pacchiotti Aldo, Pereno Giovanni e Ratis Giorgio.
Pietro Varda al centro in piedi.

Dopo qualche anno i due fratelli Varda si divisero, Pietro si stabilì a Bardonecchia e sposò una donna del paese, Enrichetta Pellerin. La giovane coppia si trasferì in Francia in cerca di fortuna: si fermarono a La Praz, paesino poco dopo Modane, dove aprirono un’osteria. Tornarono poi a Bardonecchia dove nacquero i tre figli: Andrea, nato il 14 settembre 1888 e morto giovanissimo nel 1901, Pietro il 16 agosto 1893 e Oberto il 14 luglio 1897.
I due fratelli Varda andarono in guerra ed entrambi ritornarono.
Oberto, detto Alberto, all’epoca della chiamata alle armi faceva il panettiere, era un bel ragazzone alto 1,71 ed era soldato di leva di 1ª categoria. Chiamato alle armi il 28 novembre 1916, nel deposito 3º Reggimento alpini Battaglione Exilles, il 30 aprile 1918 era nel 37º Reggimento fanteria, Battaglione campestre Brigata Ravenna. Giunse al fronte il 1º giugno 1918 e dal 10 agosto entrò nel III reparto d’assalto degli alpini, gli arditi delle “Fiamme Verdi” appartenenti al 3º Corpo d’Armata. Questo reparto ebbe un addestramento particolare perché destinato alla guerra bianca sulle montagne: oltre alla ginnastica e alla lotta a corpo a corpo, furono addestrati a scalare posizioni su versanti ripidissimi, canaloni e pareti di roccia.
Alberto Varda combatté insieme al suo reparto sull’Adamello e nell’alta Val Camonica per la conquista di cime inespugnabili, sotto il fuoco delle mitragliatrici, affrontando passaggi di alto alpinismo.
Il III reparto d’assalto, trasferito nella seconda metà d’ottobre 1918 alla 4ª Armata e assegnato al XXX Corpo d’Armata, partecipò con grandi prove di coraggio alla “grande offensiva” del 24 ottobre 1918 sul monte Grappa. Il reparto con le sue tre Compagnie, a costo di gravissime perdite, fu fondamentale per la vittoria finale. «Il 30 ottobre 1918, quando i superstiti del III reparto d’assalto scesero dal Grappa per raccogliersi nei pressi di Crespano, mancavano all’appello 19 ufficiali e 350 uomini di truppa»45.
Alberto Varda si salvò e, con lo scioglimento del III reparto d’assalto, il 15 dicembre 1918 rientrò nel 3º Reggimento alpini. Fu mandato in congedo illimitato nel maggio del 1920, e dopo essere rientrato a Bardonecchia si trasferì in Francia; si sposò a Chambéry nel 1920 e non fece più ritorno.
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44 Luigi Onorato Brun, Ou bâ de Ciabartoun. Usi, costumi, mentalità, scorci di vita vissuta nei villaggi dell’Alta Dora in principio del XX secolo, Edizioni Valados Usitanos, Torino 1986, p. 52.
45 Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, I reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra (1915-1918), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, Roma 2007, p. 297.

Il fratello maggiore Pietro all’epoca del servizio militare lavorava, faceva l’imbianchino. Soldato di leva di 1ª categoria, partì il settembre 1913 nel 3º Reggimento alpini Battaglione Exilles, ma la sua ferma non si concluse dopo i regolari due anni perché all’epoca del suo congedo era già iniziata la guerra. Infatti il Battaglione Exilles fin dall’agosto 1914 aveva lasciato Torino e aveva raggiunto Auronzo di Cadore, nelle Dolomiti bellunesi, territorio allora considerato zona di impiego operativo in caso di conflitto con l’Austria; nell’ottobre si era spostato in Friuli e il 20 maggio 1915 era a Montemaggiore (Taipana) dove fu raggiunto dall’annuncio della dichiarazione di guerra. I Battaglioni Exilles e Susa furono i primi ad attraversare il confine alle ore 0 del 24 maggio 1915.
Pietro Varda il 17 agosto 1915, nel corso della 2ª battaglia dell’Isonzo, fu ferito alla mano destra da arma da fuoco46 nel combattimento di Gabrje (Gabria di Tolmino): in quei giorni, tra il 15 e il 18 agosto, il Battaglione Exilles fu spostato a supporto del Battaglione Cividale contro le difese nemiche di Dolje (Dollia), nell’alto bacino del fiume Isonzo, villaggio limitrofo a Gabrje, da cui partivano le operazioni. Furono attacchi condotti al massacro, sotto il fuoco dei cannoni nemici che sparavano dalle colline di Santa Lucia e Santa Maria, attacchi che si fermavano alle doppie file dei reticolati dove rimanevano impigliati morti e feriti, senza che si potesse avanzare fino al nemico.
La giovane coppia Varda a Lione.
Varda dopo la ferita fu subito ricoverato all’ospedale di Cividale, poi di Ferrara e lasciato in licenza di 30 giorni per convalescenza. Il 27 ottobre 1915 rientrò nel deposito del 3º alpini per essere nuovamente ricoverato, il 7 novembre, nell’ospedale militare di Torino. Il 5 gennaio 1916 ebbe ancora una licenza di 10 giorni e il 5 febbraio rientrò nella 113ª Compagnia presidiaria A, Battaglione Pinerolo. Tornato in territorio in stato di guerra il 15 aprile 1916, transitò nella 113ª Compagnia presidiaria B Battaglione Fenestrelle e il 5 settembre fu promosso caporale.
Varda, ferito e dimesso dall’ospedale, molto probabilmente ancora invalido nell’uso della mano, fu inserito nella Compagnia presidiaria che era destinata a ricevere personale non adatto alla prima linea e utilizzabile nelle retrovie delle zone di guerra. Dal 10 giugno 1918 troviamo Varda nel 3º Reggimento alpini di marcia e promosso caporale maggiore nel gennaio 1919. Il 10 aprile 1919 rientrò dal territorio in stato di guerra e infine il 5 settembre 1919 giunse per lui il congedo illimitato.
Erano trascorsi sei anni da quando Pietro era partito per il servizio militare. Rientrato a Bardonecchia iniziò a lavorare in ferrovia e conobbe la giovane Luisa Bompard, figlia di Giulio, rimasta orfana di madre in giovane età. Luisa era andata a lavorare in Francia, come tante altre ragazze di Bardonecchia, faceva la governante a Marsiglia.

46 Nel gennaio 1920 Pietro Varda fu sottoposto a visita presso l’ospedale militare di Torino e fu riconosciuto affetto da «Postumi da F. a. F. alla mano destra con cicatrici ben consolidate in parte aderenti e lieve limitazione nella flessione del dito medio e anulare» e dato che «la lesione non è suscettibile di miglioramento col tempo» viene assegnato «in via definitiva alla decima categoria pensioni». Documento originale del CollegioMedico di 1º grado, OspedaleMilitare di Torino,Archivio Andrea Varda.

La giovane coppia Varda si stabilì a Bardonecchia,ma Pietro non amava il lavoro nelle Ferrovie, il suo mestiere era un altro, lui fin da giovane aveva fatto l’imbianchino.
Con un atto di coraggio si licenziò e se ne andò in Francia con la moglie a cercare fortuna.
Bardonecchia 1959:
Pierin Varda con la nipotina Luisa.
La trovò a Lione dove le sue capacità gli permisero a poco a poco di farsi una buona clientela tra la ricca borghesia della città: il lavoro cresceva e Pietro arrivò ad avere una piccola impresa con alcuni dipendenti. La giovane coppia poté permettersi una vita agiata: negli anni ’30 Pietro si comprò l’automobile, aveva una bella casa e con la moglie faceva vita di società, teatro, abiti eleganti. Nel 1931 nacque il loro unico figlio, a cui venne dato il nome del giovane fratello morto, Andrea.
Ma la Seconda guerra mondiale fermò il sogno di Pietro: con la “pugnalata alle spalle” del giugno 1940, quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia ormai occupata dai nazisti, gli italiani residenti in territorio francese avevano una sola via di scampo, la fuga e il rientro in Italia. Pietro riuscì a mettere moglie e figlio sull’ultimo treno che varcò il Frejus prima che il tunnel fosse chiuso e iniziò la sua vita di clandestino, nascosto in cantina, ricercato perché italiano. Si salvò solo con l’arrivo a Lione dei tedeschi. Ma finita la guerra aveva perso tutto, casa, denaro, lavoro. Rientrò a Bardonecchia dove riprese a fare il contadino e l’imbianchino.
Pierin Varda lo ricordiamo ancora per il paese con il suo caratteristico basco blu alla francese. Morì nel 1976.

FONTI: Archivio di Stato di Torino, fogli matricolari di Oberto e Pietro Varda. – Foglio di congedo illimitato di Pietro Varda. – Collegio Medico di 1º grado, Ospedale Militare di Torino, Estratto del verbale di Visita Collegiale di Pietro Varda. – Comune di Bardonecchia, atti di nascita di: Andrea Varda,Oberto Varda e Pietro Varda. – Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, I reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra (1915-1918), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, Roma 2007, pp. 285-297. – Pierluigi Scolè, 16 giugno 1915. Gli Alpini alla conquista di Monte Nero, Il Melograno Editore, Bollate (Mi) 2010. – Documentazione
e fotograEe dell’archivio di Andrea Varda. – Testimonianza di Andrea Varda.

– RINGRAZIAMENTI –
– Ringrazio le famiglie che hanno collaborato con me e che in piena fiducia mi hanno fornito la documentazione dei loro congiunti.
– Ringrazio tutti coloro che con entusiasmo mi hanno aiutato a vario titolo nella ricerca: Emy Bompard, Don Gian Paolo Di Pascale, Lino Ferracin, Giorgio Malavasi, Erosia Masset, Pier Luigi Scolè, Alberto Turinetti di Priero, Luisa Varda.
– Un grazie particolare a Don Franco che crede nel mio lavoro e che mi sostiene incoraggiandomi nel proseguire.