18/09/17

Attualità (2016)

PENNELLATE BARDONECCHIESI DI MONSIGNOR BONACCHI NEL DECENNALE DELLA MORTE (2006-2016)1

Vocazione sacerdotale “bardonecchiese”
Un bravo regista troverebbe – rovistando un po’– ottimo materiale per un film biografico su mons. Bonacchi, intrecciando una umanità ricca e sapida, qual era la sua, ad una fede granitica e luminosa. L’incipit del film (o della biografia) potrebbe essere quello di un giovane ufficiale alpino (tenente medico ...stava per laurearsi) che, ormai all’imbrunire, sale per la centrale via Medail di Bardonecchia, con il suo pesante zaino, verso la chiesa parrocchiale del Borgo Vecchio. Ma il suo fardello è l’inquietudine che si porta dentro, che lo attanaglia e che si risolverà, sciogliendosi in una percezione quasi mistica, come quella della sua vocazione. Bisogna lasciar raccontare da lui stesso, come fa nei ricordi dal diario di Bardonecchia, quando il 1º gennaio 1971 inaugura il primo anno di vita della casa “Chez Nous” di Bardonecchia: «Non avrei mai pensato, più di un quarto di secolo fa, quando mi trovavo in guerra su questi monti, che un giorno, sacerdote, avrei riunito qui, in una famiglia, i miei ragazzi “gaudium et corona mea!”». E dopo alcune osservazioni pedagogiche e pastorali aggiunge: «Chiedo al Signore, che è stato tanto buono con me, di volermi concedere ancor questo: come una lontana sera fece sentire a me chiara la voce che mi chiamava al sacerdozio, mentre salivo, sotto un cielo stellato, la lunga strada bianca di neve che porta alla chiesa parrocchiale di S. Ippolito, così faccia sentire ai ragazzi più buoni e generosi che formeranno una famiglia in questa casa, quanto è bello fare l’esperienza totale del suo Amore nel suo servizio».
Una vocazione sacerdotale manifestatasi nel cuore del sacerdote pratese in via Medail e dopo più di venticinque anni, ancorata alla conca bardonecchiese, trovò il modo di tornare nella nostra cittadina, per riversare sulle anime di tanti giovani la sua spiccata paternità sacerdotale. E lo fece risiedendo per lunghi mesi estivi e nelle vacanze scolastiche invernali da noi, per più di 30 anni, producendo un fertile raccolto di vocazioni sacerdotali che tutti poi, questi sacerdoti, chi più chi meno con Bardonecchia hanno avuto qualcosa a che fare... insieme a molte solide e cristianamente formate vocazioni al matrimonio. Non sembra vero, eppure proprio Bardonecchia è stata palestra di vocazioni sacerdotali.
Nella stessa pagina di diario don Mario si lascia andare alle confidenze: «Mons. Francesco Bellando, il Parroco di Bardonecchia, parlando al primo gruppo di ragazzi che ho portati a salutarlo, ha detto che, tra loro, un giorno ci saranno tre sacerdoti. Dio voglia che la profezia si avveri!». Dopo molti anni in tanti hanno potuto confermare che ciò è veramente accaduto e che la profezia si è più che raddoppiata, anche quantitativamente. Mentre don Mario scriveva queste righe era già notte fonda e tutti i ragazzi presenti dormivano in quella parte della ex Casa Scuola che don Mario aveva acquisito da “Madame”, la sig.ra Céline Massara e il professor Carlo Massara che conobbero, stimarono ed ospitarono il giovane studente di medicina pratese. Intanto don Mario chiudeva la pagina contento del clima di famiglia che si era realizzato già fin da quei giorni, in cui tutti erano felici, nella grazia di Dio e nello scenario “meraviglioso delle nevi cadute in abbondanza in questi giorni”.
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Fonti:
Mons. Mario Bonacchi, All’ombra delle tue ali, Edizioni Libreria Cattolica, Prato 2006;
Mons. Mario Bonacchi, Paternità spirituale, Edizioni Libreria Cattolica, 2007.


Il miracolo della Madonna di Rochemolles
Visita di mons. Bellando.
Don Mario conobbe Bardonecchia in circostanze drammatiche. Vi era infatti arrivato il 29 novembre 1944, ormai all’epilogo della seconda guerra mondiale, quando, sui monti di Bardonecchia i tedeschi, in ritirata dalla Francia, dopo lo sbarco degli angloamericani in Normandia, avevano ricostituito il loro fronte. Il giovane studente di medicina era nel Battaglione Edolo degli Alpini, formato in gran parte da studenti di medicina provenienti dalla scuola per allievi ufficiali Costa San Giorgio di Firenze. Laceri e affamati, mangiati vivi dai pidocchi, avevano dovuto affrontare l’impatto tremendo con il gelo delle cime di tremila metri. Quello era stato, a detta dei montanari della zona, uno degli inverni più innevati e don Mario ricordava sempre che a lui era toccato fare il capo d’anno 1945 alla Pelouse, con venti gradi sotto zero. Lui con alcuni commilitoni avevano preso contatti con i capi del Comitato di Liberazione dell’Alta Val di Susa, quando in una notte in aprile dovettero rifugiarsi per sfuggire ad una paventata rappresaglia dai tedeschi che misero Rochemolles a ferro e a fuoco. Un gruppo di alpini, tra cui don Mario, vennero catturati dai tedeschi, disarmati e messi con le mani alzate lungo il muro di una baita. Tutti sapevano che in quelle condizioni non si era mai salvato nessuno. Mentre li trasferivano in una grangia dove si sarebbe decisa la loro sorte, percorrendo il sentiero che passa davanti alla Cappella della Madonna del Ponte, con un compagno fiorentino don Mario invocò l’aiuto della Madonna, con l’invocazione che si leggeva sulla facciata: Sub umbra alarum tuarum protege nos. Riuscirono poi a salvarsi, scappando dalla casa dove vennero trasferiti, vicino alla chiesa del paese. Per don Mario e i suoi commilitoni fu di sicuro un miracolo per intercessione della Vergine Maria avvenuto in quella notte del ventitré aprile 1945. Difatti, a ricordo e come ex voto, dopo sessant’anni da quegli avvenimenti don Mario ha donato un’artistica maiolica di riproduzione robbiana che l’amico don Paolo Di Pascale ha fatto collocare sull’altare della Cappella con viva commozione di mons. Bonacchi, che ebbe questa consolazione poco tempo prima di morire.

Festa patronale a Rochemolles.


La chiesa di Rochemolles rifugio indimenticato
Bisogna ricordare ancora che la mamma di don Masset, che don Mario aveva conosciuto, li accompagnò in chiesa parrocchiale e lì l’alpino Bonacchi e i tre commilitoni, appena sfuggiti alla prigionia tedesca, passarono la notte in mezzo a molti incubi nel coretto. Ma di giorno, appena svegli, visto il tentativo di rastrellamento da parte dei tedeschi, riuscirono a nascondersi in un anfratto dietro l’altar maggiore, fra il dossale dell’altare e l’abside, in uno stretto spazio ingombro di vecchi arredi entrando in una specie di pertugio e riaccostando la statua di S. Pietro che avevano spostato per entrarvi. Rimasero tutta la notte rannicchiati e spaventati ad ogni minimo rumore di essere cercati dai tedeschi per il loro complotto con i partigiani. Finalmente i tedeschi se ne andarono e don Mario e compagni furono avvisati da un paesano di uscire tranquilli. Don Mario ha scritto nel dettagliato resoconto di quella esperienza che «tante volte, ritornando a pregare in quella chiesa, ho pensato che, se fossi stato un personaggio di rilievo, avrei potuto mettervi un’epigrafe con su scritto – In die malorum abscondi me in abdito tabernacoli sui». È un versetto del Salmo 26,5: “Poiché Egli mi nasconderà nella sua tenda nel giorno della sventura. Mi occulterà nel segreto, come in una rocca inaccessibile”. Un anno don Bonacchi presiedette la festa patronale di S. Pietro e in quell’occasione regalò alla chiesa il corredo personale dei paramenti liturgici come segno di riconoscenza verso quella chiesa che lo aveva protetto nella parte più intima del suo tabernacolo nel tempo del terrore.

Mamma Adriana a Bardonecchia
Un particolare che non conoscevo in verità, ma che ho scoperto negli scritti di don Bonacchi, è che il legame con Bardonecchia coinvolge anche la sua povera mamma, Adriana Nocentini, come lui stesso scrive a ricordo del periodo natalizio 1974-1975, confessando di non riuscire a trattenere le lacrime rileggendo le ultime parole che la sua cara mamma pronunciò prima di lasciare per sempre Bardonecchia: «... già piansi tanto quando la vidi scrivere su questo stesso tavolo del refettorio su cui scrivo anch’io in questo momento: già sapevo che non sarebbe mai più tornata su questi monti». Don Mario era incerto fino agli ultimi di giugno se portarla con sé o no, ma non volle lasciarla a Prato, e facendosi coraggio, dopo aver preso con sé l’olio santo per essere pronto a qualunque evenienza, fu contento della decisione. Osserva: «L’aria pura, il cielo limpido di Bardonecchia, ma soprattutto le attenzioni e l’affetto di cui fu circondata, produssero un vero miracolo. La grave emiplegia che l’aveva colpita il 23 gennaio, regredì quasi completamente al punto che, con nostra grande gioia, la vedemmo ricominciare i suoi passettini. Mai in vita sua la vidi così felice. Era la prima volta che faceva un’esperienza comunitaria, in una bella famiglia di giovani. I nostri ragazzi le hanno fatto provare una gioia che non aveva mai gustato». Sembra di leggere qualcosa dei fioretti salesiani, del rapporto tra Mamma Margherita e Don Bosco e fra loro i ragazzi, i giovani. Che bella pagina di vita familiare cristiana e comunitaria, e tutto questo a Bardonecchia. La pagina si conclude con dolore, però, ma non senza speranza: «Il 12 dicembre è morta santamente. Solo la fede può colmare il vuoto che mi ha lasciato». Così, come possiamo ben comprendere oltre al già forte legame pastorale con Bardonecchia si accresce il legame affettivo per i ricordi familiari.

Vacanze bardonecchiesi: educare i giovani
Don Mario riconosceva che la parte più bella e gratificante del suo ministero si era svolta in mezzo ai giovani: ventuno anni di scuola all’Istituto Buzzi di Prato, la scuola in Seminario, assistente diocesano dei giovani di Azione Cattolica, poi Correttore della Misericordia e responsabile alla Biblioteca Roncioniana, Parroco della Cattedrale per qualche anno, poi Canonico Teologo ed Esorcista Diocesano. Insomma i giovani sono stati la parte eletta del suo Sacerdozio.
Sentendo il desiderio di portare i suoi giovani a godere il limpido cielo delle Alpi ed il candore delle nevi. Grazie all’amicizia risalente ai tempi di guerra con i già citati professori Carlo e Céline Massara riuscì a realizzare la casa che tanto desiderava con una bella Cappella, un ampio e luminoso refettorio, con cucina e dispensa, i servizi con doccia, la saletta dei colloqui, le camerette, persino il gioco delle bocce ed una piccola biblioteca. Si sono avvicendate più generazioni di ragazzi pratesi, conosciuti a Bardonecchia, anche nei negozi e dalla gente come “i ragazzi di don Mario”, che facevano di solito i turni di due settimane di vacanze, con molte gite e sempre con Messa quotidiana, Lodi e Vespri, esame di coscienza e Compieta.
Qualcuno diceva: “Si fa vita da frati”. La giornata era ritmata con la campanella, quasi un convento. Don Mario raccontava che in oltre trentatré anni di soggiorni a Bardonecchia aveva imparato a conoscere le direzioni dei venti, il movimento delle nubi, l’andamento del barometro, perché era sempre problematico tenere in casa una ventina di ragazzi quando faceva brutto tempo. Il centro della casa era la Cappella, che don Mario chiamava la nostra “Porziuncola” sempre riconoscente alla famiglia Gibello che l’aveva realizzata in memoria della signora Emilia che don Bonacchi aveva assistito negli ultimi giorni.
Le vacanze invernali avevano uno scenario particolare per la tanta neve, tanto che per andare dal cancellino sulla strada alla porta d’ingresso della casa si passava attraverso una trincea scavata nella neve e i ragazzi andavano mattina e sera sui prati con gli slittini per godere l’ebbrezza delle veloci discese. E poi la sera dell’ultimo dell’anno venivano tutti in Parrocchia a dare una mano a monsignor Bellando per cantare il Te Deum di ringraziamento.
Un simpatico aneddoto ci presenta un don Mario un po’ diverso da quello cui eravamo abituati. Un inverno arrivarono don Mario e un accompagnatore a Bardonecchia dopo la mezzanotte a causa del ritardo dei treni e dovevano preparare l’arrivo della comitiva. Trovarono tanta neve e dovettero faticare e lavorare per poter arrivare alla porta e aprirla. Aprirono l’acqua nell’impianto di riscaldamento che subito si attivò, ma dopo pochi istanti andò in blocco, andarono a letto e poco dopo don Mario sentì uno strano rumore che proveniva dalle tubature dell’acqua e si accorse che si era rotto un flessibile dello scaldabagno del piano superiore con l’acqua che scorreva giù per le scale arrivando alla porta d’ingresso. Non volle svegliare l’accompagnatore – Paolo – che dormiva profondamente e così in pigiama e ciabatte stette a togliere acqua con straccio e secchiello fino alle due del mattino. Ecco un don Bonacchi del tutto inedito pur di far sì che all’arrivo dei ragazzi tutto fosse a posto. Ed il suo commento è spassoso per il realismo e vale un trattato di pastorale: «La pastorale giovanile comportava anche queste avventure». Una frase celebre e quasi proverbiale don Mario ripeteva ad amici e conoscenti pratesi e fiorentini: «Vado a Bardonecchia a fare la cura A.R.A.», con ciò intendeva dire ad apprezzare l’Aria, il Radicchio selvatico – i girasoli – e l’Acqua. E così con sano umorismo dava sintetici e apprezzabili riferimenti sul suo essersi fatto bardonecchiese d’adozione. Era molto simpatico, talvolta, sentirlo ripetere qualche espressione in buon piemontese, che nella sua bocca toscana suonava singolare.

Nel Diario del Concilio del Cardinale Felici
Un libro è stato pubblicato di recente dalla Libreria Editrice Vaticana a cura dell’Arcivescovo Mons. Agostino Marchetto sul Cardinale Pericle Felici, noto al mondo come il Protodiacono che annunciò dalla Loggia della Basilica di S. Pietro le elezioni di Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, che pubblica i suoi Diari in quanto Segretario del Concilio Ecumenico Vaticano II. Un’opera di pregevole rilievo storico, molto apprezzata e letta in tutto l’universo ecclesiastico.
Don Mario accanto al Cardinale Felici in visita a Prato

Ciò che colpisce è trovarvi citato don Mario Bonacchi esplicitamente almeno due volte, altre in modo implicito. Il Cardinale conobbe don Mario al Seminario Romano quando ne era il Padre Spirituale e si tennero sempre in contatto, anzi venne a Prato almeno due volte e visitò don Mario. Una bella fotografia li ritrae a Prato, insieme al Vescovo Diocesano Fiordelli nel 1978. Nel decimo anniversario della morte di mons. Bonacchi i suoi figli spirituali hanno avuto la bontà di invitarmi a presiedere la celebrazione della Messa nel Seminario di Prato. Poco tempo prima, con mio sommo rincrescimento, ho dovuto disdire l’impegno a causa della concomitante celebrazione del 60º di Ordinazione di don Paolo Di Pascale a Bardonecchia. Avevo già però preparato queste note, ora riordinate per la pubblicazione, che concludevo come qui con le citazioni del libro appena menzionato e che ora riporto quasi a riparare il “torto” fatto a don Mario, mio malgrado.
Nelle 587 pagine del Diario Conciliare di Mons. Felici, il lunedì 27 dicembre si legge:
«Sono a cena presso le Suore Marianiste (Via Pallai, 4 - a Roma) con i giovani dell’Azione Cattolica di Prato, guidati da don Mario; mi fanno tanta buona impressione. Dopo la cena tengo una conversazione sul Concilio e rispondo ad alcune loro domande. La compagnia di quei giovani mi ha richiamato i bei tempi passati»(2).
All’entrata di “Chez Nous”, tra i giovani: il primo guardando a destra, che si appoggia al muro, è il nipote Stefano Faggi, oggi sacerdote.

Più avanti invece il Cardinale fa il breve resoconto della sua visita a Prato avvenuta il 5 e 6 febbraio 1966 dove giunge da Roma verso le 19 del sabato sera accolto dal Vescovo, da don Bonacchi e don D’Amia con alcuni giovani. Dopo cena, nel salone del Vescovado parlò del Concilio davanti ad un’attenta folla di gente ed il giorno seguente celebra e tiene l’omelia in Seminario e alle 10,30 celebra il pontificale in onore di S. Caterina de’Ricci per poi visitare la Villa al Palco e le Spigolatrici che la governano e tornare a Roma nel tardo pomeriggio. Don Mario lo accompagnava e godeva della sua paterna amicizia e fiducia. Ne sono testimone perché ho avuto l’occasione di fare al Cardinale da aiuto cerimoniere nel febbraio 1982, un mese prima della morte, nella chiesa di S.Apollinare in Roma, di cui era titolare come Cardinale Diacono, e al solo parlare di don Bonacchi il Cardinale si faceva ancor più affabile e cordiale. Quest’illustre porporato, considerato anche l’artefice della Revisione del Codice di Diritto Canonico, aveva una grande stima di don Mario e l’avrebbe visto e forse voluto in qualche posto di responsabilità nella Chiesa. Considerava però che il bene fatto e che stava ancora facendo in particolare nel mondo giovanile non potesse aver pari in nessun altro per quanto onorifico incarico.

Padre di una corona di sacerdoti fino al nipote don Stefano Faggi
La paternità spirituale di don Mario che molti di noi hanno sperimentato (sono parecchi i sacerdoti che devono a lui la loro vocazione o lo riconoscono come padre) ha avuto ancora un ultimo sbocco, post mortem, nell’Ordinazione sacerdotale, a Prato, del nipote dottor Stefano Faggi, nel 2015, anche lui medico, figlio di medici: la mamma, Giuseppina, sorella di don Mario, era medico chirurgo, il padre, cognato di don Mario, un apprezzato pediatra.

2 Vincenzo Carbone, Il diario conciliare di Monsignor Pericle Felici, Libreria Editrice Vaticana 2015, p. 503.

Don Stefano ha svolto la professione di medico prima a Ferrara poi a Ravenna, quindi a Careggi ed infine a Prato. La sua vocazione maturava in lui da anni, proprio grazie a don Mario e riconosce (don Mario ha sempre abitato con loro fino alla morte) di aver vissuto in una famiglia di “santi”. Anche in questo Bardonecchia ha un ruolo particolare.
La sera del giovedì 27 luglio 1989 don Mario era appena rientrato dalla chiesa di S. Ippolito a Bardonecchia dove teneva ritiri spirituali per il popolo, in casa “Chez Nous” di via Genova, quando fu avvisato di chiamare urgentemente la famiglia a Prato. Non avendo il telefono in casa, don Mario andò quando era ormai quasi buio, con il cuore in gola, presso la più vicina cabina telefonica in fondo a via Callet, all’incrocio con via Medail, per telefonare ai suoi e apprendere che il nipote medico da una ventina di giorni era in pericolo di vita per un embolo che gli aveva occluso l’arteria polmonare. Non avevano avvisato don Mario per non affliggerlo, ma lui si rese conto perfettamente del dramma che si profilava. Decisero che sarebbe rientrato a Prato da dove sarebbe venuto don Daniele Scaccini a prenderlo in macchina. La notte non chiuse occhio ma volle mantenere lo stesso l’impegno dell’ultima meditazione in Parrocchia. Mons. Bellando, che già aveva saputo la triste notizia, si meravigliò che mons. Bonacchi avesse tenuto fede all’impegno.

Quando don Bonacchi disse che doveva partire presto si sentì rispondere, come racconta lui stesso: «dal Parroco mons. Bellando, con una prontezza e una sicurezza che mi stupirono, mi disse subito che io non sarei affatto partito, perché, aggiunse, non ce ne sarebbe stato bisogno, dal momento che non c’era nessun pericolo e tutto sarebbe andato bene. Io gli feci osservare che ormai i miei familiari e i miei amici avevano già tutto disposto per il mio sollecito rientro. In quel momento non mi resi conto che il Signore mi mandava un messaggio di conforto e di speranza con le parole amiche di quel buon sacerdote»3. Infatti, fu chiesto a don Mario di restare a Bardonecchia, in attesa dell’intervento, e fu un mese di agonia, tra speranze, tante e continue preghiere, lacrime di don Mario e degli amici e dei giovani e finalmente, alla fine tutto si risolse “miracolosamente” bene e don Mario, che non amava i viaggi né i pellegrinaggi, andò a Paray le Monial con don Serafino e Gian Carlo Castagno per ringraziare il Sacro Cuore e vi tornò tre volte, una proprio con Stefano, in ringraziamento. Le parole di mons. Bellando furono profetiche, ancora una volta.
Ai sacerdoti, soprattutto ai suoi, don Mario chiedeva impegno, studio, sacrificio e coerenza e desiderava anche che testimoniassero con il portamento esteriore e l’abito talare la loro appartenenza a Cristo. Già solo per questo merita non solo di essere ricordato, ma seguito e non solo da quei figli spirituali che ha generato. A Bardonecchia mons. Bonacchi trova di sicuro ancora oggi il suo posto onorevole, nel cuore di tante persone che ancora gli vogliono bene.
Monsignor Claudio Iovine
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3 Mons. Mario Bonacchi, Paternità spirituale, Edizioni Libreria Cattolica, 2007.



VIA CRUCIS 2016
Ho avuto il piacere di essere invitato ad unirmi al Gruppo Alpini di Bardonecchia per partecipare alla Via Crucis del Venerdì Santo che si snoda dalla Parrocchia, lungo Via Medail, fino alla chiesetta di Maria Ausiliatrice, ed eventualmente aiutare per il trasporto della statua del Cristo deposto dalla Croce.
Lasciato il piazzale della Parrocchia la processione si è avviata, con la statua, portata a spalle da quattro alpini. (foto A. Bosco)

Lasciato il piazzale della Parrocchia la processione si è avviata, con la statua, portata a spalle da quattro alpini. La “camminata” degli alpini è particolare; per andare al passo non è necessario guardare i piedi, bensì l’oscillazione delle penne. Anche durante i nostri raduni, dopo i primi passi un po’ alla belle e meglio, le penne iniziano ad oscillare all’unisono. Per portare la statua, bisogna iniziare subito al passo, e il vedere, nella semioscurità, quelle penne oscillare ritmicamente, a marcare il passo cadenzato, mi ha fatto pensare a quelle foto e a quei filmati delle guerre, in cui si vedono barelle cariche di poveri corpi trasportati a spalle da poveri soldati, appena di poco più sani dei trasportati. Quindi non portavamo più una statua, bensì una barella con un povero Caduto e quel Caduto rappresenta tutti i nostri dolori, le nostre cadute, tutte le sconfitte e le speranze non realizzate. Su quella barella ho sentito di portare tutto il dispiacere di una recente perdita, la nostalgia dei parenti e degli amici che non ci sono più e tutte le insicurezze del tempo presente. Ma poi quel Caduto lo abbiamo deposto in chiesa e lo abbiamo lasciato, sapendo che il Sacrario lo avrebbe ospitato per poco, a differenza di tutti gli altri questo Caduto risorge, ed allora tutto il dolore che avevamo caricato sulla Sua barella viene alleggerito dalla consapevolezza che anche il nostro tempo nel Sacrario non è per sempre e che anche noi ci rialzeremo dalle nostre barelle, per riabbracciare tutte le persone amate ed amiche.
Un villeggiante di Bardonecchia - M.G. -

DISPOSIZIONI PER LE SEPOLTURE
Vengono trasmesse le disposizioni date dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, circa la sepoltura dei fedeli e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione.
1. Per risuscitare con Cristo, bisogna morire con Cristo, bisogna «andare in esilio da questo corpo e abitare presso il Signore» (2Cor 5,8). Con l’istruzione “Piam et constantem” del 5 luglio 1963, l’allora Sant’Uffizio ha stabilito che «sia fedelmente mantenuta la consuetudine di seppellire i corpi dei fedeli defunti», aggiungendo però che la cremazione non è «di per sé contraria alla religione cristiana» e che non siano più negati i Sacramenti e le esequie a coloro che abbiano chiesto di farsi cremare, a condizione che tale scelta non sia voluta «come negazione dei dogmi cristiani, o con animo settario, o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa». (...) Nel frattempo la prassi della cremazione si è notevolmente diffusa e nel contempo si sono diffuse anche nuove idee in contrasto con tale fede della Chiesa. Pertanto la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto opportuno la pubblicazione di una nuova Istruzione, allo scopo di ribadire le ragioni dottrinale per la preferenza della sepoltura dei corpi e di emanare norme per quanto riguarda la conservazione delle ceneri nel caso della cremazione.
2. La risurrezione di Gesù è la verità culminante della fede cristiana, predicata come parte essenziale del Mistero Pasquale fin dalle origini del cristianesimo: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto, cioè come Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici » (1Cor 15,3-5). ( ... ) Grazie a Cristo la morte cristiana ha un suo significato positivo. La liturgia della Chiesa prega: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata...». Con la morte, l’anima viene separata dal corpo, ma nella risurrezione Dio tornerà a dare la vita incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima.
3. Seguendo l’antichissima tradizione cristiana, la Chiesa raccomanda insistentemente che i corpi dei defunti vengano seppelliti nel cimitero o in altri luoghi sacri. (...) Seppellendo i corpi dei defunti, la Chiesa conferma la fede nella risurrezione della carne. Non può permettere, quindi, atteggiamenti e riti che coinvolgono concezioni errate della morte, ritenuta sia come annullamento definitivo della persona, sia come il momento della sua fusione con la Madre natura o con l’universo, sia come una tappa nel processo della re-incarnazione, sia come la liberazione definitiva della “prigione” del corpo. Inoltre la sepoltura nei cimiteri o in altri luoghi sacri risponde adeguatamente alla pietà e al rispetto dovuti ai corpi dei fedeli defunti, che mediante il Battesimo sono diventati tempio dello Spirito Santo. Mediante la sepoltura dei corpi nei cimiteri, nelle chiese o nelle aree ad esse adibite, la tradizione cristiana ha custodito la comunione tra i vivi e i defunti e si è opposta alla tendenza a occultare o privatizzare l’evento della morte e il significato che esso ha per i cristiani.
4. Laddove varie ragioni portino a scegliere la cremazione, scelta che non deve essere contraria alla volontà esplicita o presunta del fedele defunto, la Chiesa non scorge ragioni dottrinali per impedire tale prassi, poiché la cremazione del corpo non tocca l’anima e non impedisce all’onnipotenza divina di risuscitare il corpo e quindi non contiene l’oggettiva negazione della dottrina cristiana sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi.

La Chiesa continua a preferire la sepoltura dei corpi poiché con essa si mostra una maggiore stima verso i defunti, tuttavia la cremazione non è vietata, «a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana». In assenza di motivazioni contrarie alla dottrina cristiana, la Chiesa, dopo la celebrazione delle esequie, accompagna la scelta della cremazione con apposite preghiere liturgiche.
5. Qualora per motivazioni legittime venga fatta la scelta della cremazione, le ceneri del defunto devono essere conservate di regola in un luogo sacro, cioè nel cimitero o, se è il caso, in una chiesa o in un’area appositamente dedicata a tale scopo dalla competente autorità ecclesiastica. (...) La conservazione delle ceneri in un luogo sacro può contribuire a ridurre il rischio di sottrarre i defunti alla preghiera e al ricordo dei parenti e della comunità cristiana. In tal modo, inoltre, si evita la possibilità di dimenticanze e mancanze di rispetto che possono avvenire soprattutto una volta passata  la prima generazione, nonché pratiche sconvenienti o superstiziose.
6. Per i motivi sopra indicati, la conservazione delle ceneri nell’abitazione domestica non è consentita.
7. Per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista, non sia permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra o in acqua o in altro modo, oppure la conversione delle ceneri in ricordi commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti tenendo presente che per tali modi di procedere non possono essere addotte ragioni igieniche, sociali o economiche che possono motivare la scelta della cremazione.
8. Nel caso che il defunto avesse notoriamente disposto la cremazione e la dispersione in natura delle proprie ceneri per ragioni contrarie alla fede cristiana, SI DEVONO NEGARE LE ESEQUIE, a norma del diritto.
Il Sommo Pontefice Francesco ha approvato la presente Istruzione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, 15 agosto 2016
Gerhard Card. Muller, Prefetto
_ Luìs F. Ladaria, S.I., Segretario
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«Non esiste nessuna scoperta scientifica che possa essere usata al fine di mettere in dubbio o di negare l’esistenza di Dio. Ci sono cose che la scienza (ancora) non può spiegare... Quale può essere la spiegazione? ... Dio!».
(prof.Antonio Zichichi)


EMILIO GIACCONE,
UN VALSUSINO CHE AIUTÒ I GIOVANI A CRESCERE
Nato l’8 luglio del 1902 a Vaie (TO), da Silvino e Agostina Girardi, una famiglia di agricoltori.
Il padre fu richiamato alle armi durante la guerra del 1915-18; toccò a lui sostituirlo nei lavori agricoli, poiché maggiore dei due fratelli. Tornato il padre, nel maggio del 1919 entra alle Officine Moncenisio di Condove come falegname e vi lavora fino al maggio del 1921.
Il servizio militare lo svolse a Susa tra la fine del 1922 e l’inizio del 1924 nel corpo degli Alpini e fu congedato col grado di sergente maggiore. Dopo la ferma, riprende l’attività di falegname nella casa natale.
Abbinata a questi eventi di vita tradizionale, si svolge l’attività di credente. Nel 1922 indice un convegno di tutti i Circoli diA.C. giovanile della Bassa Valle di Susa, in occasione dell’inaugurazione della bandiera bianca del Circolo Cattolico Pierino Del Piano di Vayes, già attivo da alcuni anni, di cui è presidente e fondatore. È iscritto all’associazione dal 1920, e fa parte del Direttivo diocesano.
Sappiamo come fosse un buon organizzatore, soprattutto dotato di una forte personalità e spiccata intelligenza, Si nota come la sua tenacia e la fiducia nell’aiuto di Cristo non si arrendono, non rinuncia a sperare e a far sperare, non cede alla tentazione di fermarsi davanti agli ostacoli del momento, perché mosso da un’instancabile voglia di costruire e condividere con gli altri il senso della vita e la disponibilità alla volontà di Dio.
Data l’epoca carica d’incertezza politica con tensioni e paure, da quanto risulta, anche lui era piuttosto vigile poiché temeva qualche scelleratezza da parte di facinorosi contro la sua persona, a cagione della testimonianza e delle idee che professava e trasmetteva. Durante il servizio militare frequenta il Circolo Giovanile “Mario Chiri” di Susa, ove incontra il Padre Pietro Briozzo, rettore dei francescani. Da questi dialoghi nasce la sua chiamata a farsi frate. Di conseguenza a questa scelta, nacquero e fiorirono amicizie destinate a lasciare il segno incancellabile nel futuro. Un progetto di vita al quale, però, rinunciò.
A Torino incontra Zaccaria Negroni, un amico che in seguito alcuni definiscono “quasi il suo gemello”, che studia al Politecnico della città con Pier Giorgio Frassati, entrambi impegnati nel Circolo universitario di Torino della F.U.C.I., “Il Cesare Balbo”, in quello dedicato a Guido Negri (il Capitano Santo) dell’Azione Cattolica e nella Conferenza di “San Vincenzo” e frequentano la chiesa di Santa Maria di Piazza dei Padri Sacramentini. Militavano tutti nella Gioventù Cattolica, e si proponevano di recare nell’organizzazione giovanile un soffio di profonda spiritualità, vissuta nell’intimità con Gesù alimentata dalla preghiera e dall’Eucaristia, nel silenzio e nel nascondimento “con Cristo in Dio”. Nello spirito di fraterna amicizia, si sostenevano a vicenda per realizzare i loro ideali di apostolato. In quest’ambiente sociale, culturale e politico di quel tempo, si forma un gruppo di giovani santi, pienamente radicati in Gesù: Pier Giorgio Frassati, Emilio Giaccone, Clemente Ferraris, Luigi Gedda, Filiberto Guala e Zaccaria Negroni; una virtù vissuta nella quotidianità dell’ambiente. Con quest’ultimo, Emilio cominciò a tracciare i connotati di un’associazione di laici.
Il Negroni, dopo la laurea in Ingegneria Elettrotecnica, torna a casa a Marino (23 km. da Roma) e si dedica completamente allo sviluppo dei Circoli di A.C. sotto la guida dell’Abate Guglielmo Grassi, allora Parroco diMarino e poi Vescovo; per ambedue, dichiarati Venerabili, è in corso la Causa di Beatificazione.
Incontro con Papa Pio XII; alla sua sinistra
Emilio Giaccone e il consigliere ecclesiastico
 mons. Bovone.
L’idea di dar vita a una “Associazione di laici consacrati totalmente a Dio”, con il vivere nel secolo l’impegno cristiano e l’apostolato, di cui si era parlato a Torino, con mons. Grassi prende corpo. Erano, così, di fronte alla scelta della loro vita. Nei primi giorni di novembre del 1925, Emilio, che aveva sempre mantenuto i contatti con Negroni, lascia la casa paterna, il suo lavoro, i familiari, gli amici e parte senza un programma ben definito sulla sua attività futura, ma con la certezza che con Zaccaria avrebbe trovato la sua strada, quella vera verso cui il Signore l’aveva indirizzato, e si trasferisce a Marino. Questa scelta, come confesserà più tardi, è stata causata da circostanze provvidenziali e alcune intuizioni. Aveva appena ventitré anni.  Poco dopo li raggiunge un altro amico  del gruppo: Clemente Ferraris di Celle (Ravenna). I tre giovani militavano tutti nell’A.C. Si presentarono al Parroco della cittadina, don Grassi, manifestando il loro proposito di consacrarsi a Gesù, ma nella loro condizione di laici impegnati nell’apostolato, offrendo la loro collaborazione ai Pastori della Chiesa. «È Dio che vi manda» fu la risposta; lui, infatti, aveva già fondato l’Istituto religioso delle “Discepole di Gesù” con le stesse finalità di laiche consacrate e dedite all’evangelizzazione e alla carità.
Dopo quell’incontro, sul finire del 1925, nasce l’associazione religiosa e laicale dei “Discepoli di Gesù”. Costoro furono i precursori degli Istituti Secolari anticipando i tempi, successivamente maturati con il Concilio Vaticano II, dato che, all’epoca, la vita religiosa era generalmente concepita solo al riparo di monasteri e fuori della vita sociale. Un’Associazione di Laici basata sullo spirito del Terz’Ordine Francescano: castità, povertà e obbedienza, che s’ispira al Vangelo, in particolare al capitolo decimo di San Luca e di cui una delle regole basilari era: «Provvederanno al proprio sostentamento materiale col lavoro sia come professionisti che artigiani, o semplici manuali. Potranno prestare la loro opera sia all’interno che fuori dell’Istituto, anche in pubblici impieghi e aziende private ...».
Gli inizi della nuova comunità furono duri. I tre giovani si trovarono alle prese con grosse difficoltà materiali, con pregiudizi e incomprensioni di fronte alle quali chiunque senza la loro formazione spirituale si sarebbe arreso, e non avevano mezzi, una sede, una casa. Dopo essersi dedicati ai lavori più umili, venne l’ispirazione di aprire una piccola tipografia nei locali posti sotto la basilica a costo di duri sacrifici e intenso lavoro, che costituì una modesta fonte di guadagno, ma non per le loro frugalissime esigenze, quanto basta per dare il primo soffio vitale alla nuova Congregazione. Intanto Emilio, che operava come impressore nella stamperia, in quel tempo lavoro molto faticoso, finì i suoi studi con la laurea in matematica.
L’opera svolta in questa stamperia nel 1931, in seguito all’estensione dell’azione dittatoriale, fu sospettata d’ingerenza politica educativa e sindacale. Era fortemente sospettata perché vi si stampavano varie pubblicazioni dell’A.C., e soggetta a continue ispezioni. L’attività clandestina non si limitò a sostenere la libertà delle idee, ma accorse in aiuto ai più deboli: aiutare i giovani renitenti al reclutamento, gli ex prigionieri alleati, consentire a intere famiglie di ebrei e a vari esponenti della Resistenza di fuggire alla cattura da parte della polizia nazifascista.
Giaccone cominciò a insegnare nella scuola come professore di matematica prima nel Seminario di Campobasso fino all’anno scolastico 1927-28 e, dal successivo 1928-29, in quello di Rieti. Qui si trovò coinvolto al fianco del Vescovo Massimo Rinaldi, oggi Venerabile, negli avvenimenti che culminarono con lo scioglimento della “Società della Gioventù Cattolica Italiana” del 29 maggio del 1931.
Nel frattempo, fece amicizie importanti a Roma come il Presidente Generale di A.C. Angelo Raffaele Jervolino e Luigi Gedda. Costoro, su invito dell’Assistente Ecclesiastico S.E. Mons. Domenico Tardini, a soli ventinove anni, gli affidarono la tesoreria della Gioventù, nel Consiglio Nazionale dell’A.C. appena costituita al 2 settembre 1931, e poi, dal 1947, di tutta l’Azione Cattolica Italiana per cui si trasferì nella Capitale, a Casa Assistenti. Qui si trovò, di nuovo, a fianco di Negroni, al quale era stato affidato, dal 1929, l’incarico di costituire in ogni associazione .C. gli “Aspiranti”.
Professione e vestizione Suore Alcantarine
- Roma Istituto S. Giuseppe, 1960.
Anche in questo caso si trovarono uniti a soddisfare la loro passione: “Aiutare i Giovani” a crescere. Crearono per loro il giornalino “l’Aspirante”, fondarono “il Vittorioso” e stabilirono “la Regola dell’Aspirante” che ogni ragazzo doveva vivere quotidianamente. Divenne amministratore dell’Editrice “AVE” (sigla in onore della Madonna), fondata da loro due nel 1928, e dei vari periodici dell’A.C., del Centro Cattolico Cinematografico dell’Ente dello Spettacolo; amministratore unico del giornale cattolico di Roma “Il Quotidiano”, della Società Messaggerie Cattoliche “SEMCI”.
Dopo tante esperienze, era ormai maturo per più vasti e impegnativi compiti, ma non volle mai entrare in politica, malgrado le sollecitazioni. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, fu chiamato dall’allora Ministro Giovanni Gronchi alla carica di Commissario Governativo dell’Ente per l’Assistenza agli Orfani dei Lavoratori Infortunati (EAOLI), ed in seguito gli fu affidato l’Ente Nazionale per la Protezione Morale del Fanciullo (ENPMF). Accettò l’incarico a titolo completamente gratuito in considerazione delle finalità dei due Enti. Nel 1948 il Ministro Amintore Fanfani ne promosse la trasformazione in un ente con competenze ben più vaste: “L’ENAOLI” (Ente Nazionale per l’Assistenza degli Orfani dei Lavoratori Italiani), che in breve si affermò come l’organizzazione pilota di concezioni ed attività di avanguardia nel mondo vastissimo dell’assistenza all’infanzia e alla gioventù. Emilio Giaccone ne fu nominato Presidente.


Momento di preghiera con le Enaoline all’Istituto Salesiano Sacro Cuore a Trino Vercellese - novembre 1968.

Questa sua carica si protrasse oltre i venticinque anni. Il lungo periodo in cui egli ha pilotato questa importante istituzione è stato quanto mai ricco d’indicazioni, di esperienze, d’iniziative destinate ad incidere profondamente sui criteri ispiratori e sulle formule concrete, superando le istituzioni tradizionali che mostra- Professione e vestizione Suore Alcantarine - Roma Istituto S. Giuseppe, 1960. vano la loro inadeguatezza, non solo di mezzi, ma prima di tutto d’idee, di formule, di strumenti, di personale. Si dedicò a risollevare queste istituzioni ricorrendo alle migliori energie e sicure competenze, provvedendo alla formazione di qualificati quadri di operatori ed educatori.Ancora una volta aveva l’occasione di aiutare ragazzi e bambini in difficoltà e donare tutte le sue risorse materiali, spirituali e affettive.
Inaugurazione nuova macchina da stampa
al Buon fanciullo - Primavalle - Roma.

Lui che per servire la Chiesa, come laico consacrato, aveva rinunciato a formarsi una famiglia, si ritrovò migliaia di figli adottivi che affettuosamente lo chiamavano: Papà Giaccone. Negli anni ’60 del 1900 vi erano oltre 450 mila minori sostenuti dall’Ente e circa 120 mila le famiglie di appartenenza; venticinquemila ragazzi e giovani erano direttamente assistiti nei collegi, gli altri vivevano in famiglia con il supporto del servizio sociale professionale e il sostegno economico dell’ENAOLI. Nell’ambito di questa funzione “inventò” negli anni ’60 i “Giochi di primavera” – la cui prima edizione si svolse nel 1963 –, che poi divennero i “Giochi della Gioventù”.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri promosse un incontro straordinario di quanti si occupavano dei giovani e dei loro bisogni. Fu così bandita, nel 1951, la “Conferenza nazionale sui problemi dell’assistenza pubblica all’infanzia e all’adolescenza”; si fece perno proprio sulla persona di Emilio Giaccone, che ebbe l’incarico “ufficiale” dell’organizzazione della conferenza per la sua posizione e competenza alla promozione morale e sociale della gioventù.
Attraverso le conclusioni si poterono affermare concetti quasi sconosciuti per certe strutture dell’amministrazione assistenziale. È ancora difficile valutare gli effetti della conferenza per quello che riuscì a smuovere nel grande e complesso mondo dell’assistenza minorile. Con tali istituzioni il prof. Giaccone si era personalmente votato ad un ideale e ad un preciso programma di apostolato cattolico finalizzato al miglioramento delle attività e delle istituzioni assistenziali educative, come le “Scuole di Servizio Sociale” e la “Scuola per Religiose Educatrici” organizzata dalla FIRAS.
Accettò nel 1967 la carica onorifica e la presidenza della “Fondazione Livio Tempesta per il premio della Bontà”, posta sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, poi “Centro per l’Apostolato della Bontà nella Scuola” (CABS).
In vista del termine del suo mandato nell’ENAOLI, avvenuto nel gennaio del 1972, assunse la Presidenza del “Centro Nazionale Economi di Comunità” (CNEC), un’organizzazione che realizza importanti servizi di consulenza e promozione circa le necessità dei cittadini e della società: collegi, ospedali, scuole, pensionati, colonie estive, studentati, ecc. Si può dunque affermare che se i problemi dell’assistenza dell’infanzia e dei servizi sociali in genere sono stati, a partire da quegli anni, sentiti ed affrontati con nuovo impegno e nuova sensibilità, e se per la loro soluzione si sono individuate formule più funzionali e più rispondenti alle esigenze di oggi e alle prospettive per il domani, molto si deve a quanto è stato sentito e realizzato da Emilio Giaccone.

Estate 1971 a Cesana Torinese con le Suore Francescane Missionarie di Susa, fondate da Mons. Rosaz.


Quando lasciò l’ENAOLI, dopo quasi trent’anni di presidenza in Amministrazioni pubbliche, si era serenamente ritrovato al punto di partenza, senza un soldo di liquidazione e senza un minimo di pensione preoccupandosi sempre degli altri, mai di sé. Era solito intervenire usando i suoi pur modesti mezzi personali per soccorrere tanti che a lui si rivolgevano, e che non avrebbe potuto sovvenire con i fondi degli organismi di cui era a capo. La retribuzione, tolte le spese per lo stretto necessario al vivere quotidiano, era donata ai poveri, mantenere nello studio i ragazzi meno abbienti. Affinché potesse ovviare alle gravi difficoltà finanziarie, che sicuramente avrebbe incontrato nel corso degli anni dopo il pensionamento dall’Ente, il suo successore, il dott. Tavazza, lo nominò consulente in alcune commissioni così da poter percepire un gettone di presenza e ovviare, in parte, ai disagi causati dalla mancanza di mezzi economici.
Durante le ferie estive nel suo paese natale lasciò la vita terrena: era il 1º agosto del 1972.
Nella lettera di Luciano Tavazza, indirizzata ai lavoratori dell’Ente in memoria di Emilio Giaccone, sono scolpiti al vivo gli aspetti della sua originale coerenza. Ne riportiamo i tratti salienti di alcune note biografiche. «Mi sembra che il nostro Presidente, abbia soprattutto testimoniato: Che si può essere onesti sino alla povertà, pur rimanendo per oltre un quarto di secolo in alte responsabilità amministrative, pubbliche e private. Che si può rifiutare la strumentalizzazione da qualsiasi parte venga».
L’onorevole Giulio Andreotti in un discorso inerente alla commemorazione dell’amico Zaccaria Negroni, così ricorda: «... quando ho avuto modo, dopo un certo numero di anni, di conoscere le persone, come Zaccaria Negroni, come Emilio Giaccone, come altri che in quel momento lavoravano nelle diverse parti di settore della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, ho potuto vedere che ricchezza spirituale, interiore fosse in loro, e muovesse quella che a noi sembrava soltanto un’azione esteriore, un’attivazione ...».
Carlo Carretto dall’eremo di Beni-Abbés (Saoura), saputo della morte di Emilio, scrive: «Carissimo Zaccaria, ho ricevuto qui il tuo invito. Peccato. Sarei venuto tanto volentieri. Ricordo ogni giorno nella preghiera l’indimenticabile Emilio. Ha raccolto l’amore profuso con tanta tenacia in tutta la vita. Era un Santo. Non è mai venuto meno alla sua fedeltà a Dio. Ora è Lui che aiuterà quelle opere e quegli ideali che l’hanno impegnato quaggiù».
Un esempio della piena fiducia nella Provvidenza è ricordato da un suo collaboratore, il direttore del Collegio Roosevelt di Palermo. L’istituto era posto a poche decine di metri dal mare e ospitava 250 ragazzi. Ora gli assistiti, durante la settimana frequentavano la scuola ed erano quindi impegnati nello studio e, soprattutto, seguiti dal personale. Le difficoltà, o meglio i timori, si presentavano nei giorni festivi quando il personale era in riposo lavorativo e il compito di sorveglianza era svolto dal direttore e dal suo vice dell’istituto. Data la posizione nei pressi del mare, i ragazzi, approfittando delle ore di libertà, si tuffavano in mare creando una situazione difficile da sostenere per i poveri responsabili, per cui le festività erano vissute con patema d’animo. In una giornata di queste, nel giugno 1963, si presentò Papà Giaccone a fare loro visita e a intrattenersi con i ragazzi. Fu così l’occasione nel fargli costatare la situazione asserendo che, nel qual caso fosse successo qualche incidente, si sarebbe incorsi in una denuncia alla magistratura e guai con la giustizia. Sereno e per nulla turbato della situazione, anzi stupito di una simile preoccupazione dei collaboratori, gli rispose che non dovevano angustiarsi poiché aveva affidato gli orfani a San Giuseppe e quindi era lui a proteggerli. Tale fiducia
era riposta, come menziona sovente, nelle sue preghiere alla “Lega Celeste” composta, oltre a San Giuseppe, dalla Madonna, da molti altri Santi e dai genitori degli orfani defunti. Al termine di questo racconto domandai se ricordasse vi fossero stati incidenti o infortuni seri ai ragazzi. Dopo una breve riflessione disse che, in realtà, tolta qualche sbucciatura alla pelle, agli assistiti non era mai successo nulla di grave, anche se la loro frenesia giovanile li portava a volte a comportarsi in condizioni di pericolo.
Non concepiva il lavoro degli operatori, come del resto il suo, se non come una missione, tant’è che costoro si lamentarono per l’impegno costante e prolungato nei collegi, con un solo giorno di riposo settimanale: in sostanza si trovavano in servizio giorno e notte; ma non solo, soprattutto si sentivano responsabili dell’incolumità dei ragazzi. L’occasione di prospettargli il problema avvenne nel Capodanno del ’64, durante lo scambio degli auguri con i direttori dell’Ente.
Uno di costoro, a nome di tutti, espresse le forti preoccupazioni, in particolar modo sull’incolumità degli alunni. Il Professore condivise le apprensioni e incoraggiò i direttori dei collegi confessando che aveva già provveduto «... ad affidare a San Giuseppe la protezione degli orfani ». I presenti restarono sconcertati, ma anche edificati, per la semplicità d’animo; ma chi lo conosceva bene, non si meravigliò per questa sua sorta d’ingenuità, o meglio di fede riposta, e nessuno se ne sorprese, lasciando i responsabili ammutoliti. Quest’atteggiamento lo si può percepire nell’esaminare le sue meditazioni: come S. Giuseppe era padre putativo verso Gesù, lui lo era verso gli orfani e, di lì, la piena fiducia patrocinata con la richiesta di aiuto e sostegno.
La richiesta per l’avvio della Causa alla Beatificazione, voluta dall’A.C. Diocesana, e incoraggiata dal Vescovo Mons. Alfonso Badini Confalonieri, è iniziata con la consegna il 20 dicembre 2013 dell’atto costitutivo quale “Attore promotore della causa, l’A.C. della Diocesi di Susa” e con l’invio del Supplex libellus Postulatoris del 15 gennaio 2015 al Vescovo da parte del Postulatore can. Grietti don Giorgio della Diocesi di Pinerolo. È stata costituita la Commissione Storica e da qualche tempo si stanno raccogliendo le testimonianze e la molteplice documentazione su tutto il territorio nazionale.
Adriano Tonda
BARDONECCHIA NEL CASSETTO



Al Monserrat il 2 luglio 1948. Da sinistra: Luigina Gerard tenuta in braccio da Quintino Favario - Gabriella Folcat - Gino Guiffrey - Francesco Bompard con la fisarmonica - Rosina Cantone - Elio Francou - Cesare Gerard - Sergio Francou - Giuseppe Gerard con Livio. (Collezione: Livio Gerard)


IL COLLE DELLA SCALA DI ANGELO DEJOMA.
IL RICORDO DELLA FIGLIA A 50 ANNI 
DALL’INAUGURAZIONE

Sono passati 50 anni dall’inaugurazione della strada del Colle della Scala, ai lavori partecipò, insieme ad altri, il geometra Dejoma. Nel racconto della figlia di quest’ultimo c’è un pezzo di storia di Bardonecchia, eccola:
Non so se sia mai capitato a qualcuno di voi di percorrere una strada e domandarsi chi l’avesse tracciata. Credo che alla maggior parte delle persone ciò non accada, ma non a me, sicuramente perché mio padre faceva anche quello di lavoro. Proprio una strada che molti Valsusini percorrono durante la stagione estiva, il 22 ottobre di quest’anno ha compiuto cinquant’anni dalla data d’inaugurazione, avvenuta appunto il 22 ottobre 1966: a tracciarla è stato mio padre, il geometra Angelo Dejoma.
L’opera è stata fortemente voluta dal Cav. Amprimo, il quale decise un giorno della primavera del 1964 di rivolgersi a mia nonna materna, conosciuta da tutti in Bardonecchia come “madama” Tarroboiro, affinché potesse metterlo in contatto con suo genero, mio padre appunto, perché voleva parlargli del progetto che aveva in mente. Quando s’incontrarono, mio padre accettò subito di poter prestare la sua professionalità gratuitamente per realizzare la strada e parlò con il geometra Guerrini che, insieme al fratello, era a capo di un’importante impresa edile torinese in cui mio padre lavorava, perché potessero mettere a disposizione i macchinari e gli uomini necessari per la realizzazione della stessa. In quell’anno partirono così i lavori, anche se il tempo a disposizione non fu molto a causa di un inverno precoce e molto nevoso.
I lavori progredirono moltissimo nel 1965 e nel 1966 si riuscì a terminare l’opera per fine ottobre per l’inaugurazione, anche se poi la vera percorribilità fu resa possibile solo nel 1967.
Spesso e volentieri mio padre raccontava degli aneddoti sulla realizzazione dell’opera che presentò non poche difficoltà soprattutto per rispettare la pendenza prestabilita. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo sa quanto gli piacesse il suo lavoro per cui, con la sua solita scusa che ha sempre adottato, cioè di proporre a sua moglie ed ai suoi figli di fare una passeggiata o una gita, caricava mia madre, mia nonna ed i miei fratelli (io non ero ancora nata) in auto per fare una scampagnata in Valle Stretta. Una volta arrivati a destinazione, li lasciava per raggiungere il cantiere e procedere alla realizzazione dello stesso.

Da sin.: Costa, Munari, Dejoma, Messina, Guerrini, Amprimo, Oddone, Bevilacqua, Oddone (figlio).

Tutti i fine settimana e le vacanze estive furono dedicati al Colle della Scala. Ciò che raccontava più spesso di quel periodo divertiva molto noi figli. Narrava, ad esempio, che quando faceva vedere al sig. Giobellina dove posizionare la dinamite per far saltare la roccia e proseguire con la costruzione della strada, l’artificiere, conoscendo la poca dimestichezza di mio padre con la montagna (mio padre proveniva da Riomaggiore, una delle meravigliose Cinque Terre), aspettava sì che fosse in sicurezza, ma che non fosse ancora del tutto sceso, per far saltare la miccia e divertirsi un mondo nel vederlo attaccato alle rocce ed assolutamente non in grado di scendere da solo, per cui più di una volta si è reso necessario chiamare l’intervento delle guide alpine per poterlo riaccompagnare a valle.
Da sin.: Angelo Dejoma, il Cav. Amprimo
e Alberto Guerrini.

All’inaugurazione, la cosa buffa è che sia mio padre sia Guerrini furono invitati dalle autorità francesi e non da quelle italiane ed una delle situazioni che più mi irritava era quando, ragazzina, passeggiando per la Valle Stretta con lui, ci capitava a volte di incontrare persone del posto che, salutandoci, lo apostrofavano come “quello che aveva rovinato la montagna”. Ogni volta la sua reazione era la stessa: si faceva una risata e li salutava cordialmente e vedendo il mio viso imbronciato mi ripeteva che non poteva prendersela per una cosa non vera. Ma questo era mio padre, un uomo che nella sua vita ha sempre evitato i riflettori, lavorando a testa bassa, con impegno, onestà e professionalità, non risparmiandosi mai e soprattutto nel rispetto degli altri, aiutando sempre chi ne avesse bisogno senza mai pretendere nulla. Sono questi i valori con cui ha cresciuto i suoi tre figli e che cerco di trasmettere anche a mia figlia. Non sempre sono apprezzati ed è proprio per questo motivo che, a distanza di cinquant’anni, vorrei che almeno per una volta gli si rendesse merito e si parlasse di lui come merita. Purtroppo lui non c’è più, ci ha lasciati dodici anni fa, ma son sicura che dal piccolo cimitero di Bardonecchia, rivolgendo lo sguardo al Colle della Scala, penserà: “... non era proprio il caso...”.
Sabrina, una figlia devota
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L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico.
NON IMPORTA, AMALO!
Se fai il bene ti attribuiscono secondi fini egoistici.
NON IMPORTA, FA’ IL BENE!
Se realizzi i tuoi obbiettivi trovi falsi amici e veri nemici.
NON IMPORTA, REALIZZALI!
Il bene che fai verrà domani dimenticato.
NON IMPORTA, FA’ IL BENE!
L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile.
NON IMPORTA, SII FRANCO E ONESTO!
Quello che per anni hai costruito può essere distrutto in un attimo.
NON IMPORTA, COSTRUISCI!
Se aiuti la gente, se ne risentirà.
NON IMPORTA, AIUTALA!
Da’ al mondo il meglio di te e ti prenderanno a calci.
NON IMPORTA, DA’ IL MEGLIO DI TE!
(da una scritta sul muro di Shishu Bhavan, la Casa dei bambini di Calcutta)
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